Articolo di Melanie Zefferino estratto dalla rivista Sineresi n.4
Humana ante oculos foede cum vita iaceret
in terris oppressa gravi sub religione […], primum Graius homo mortalis tollere contra
est oculos ausus primusque obsistere contra […] Ergo vivida vis animi pervicit, et extraprocessit longe ammantia moenia mundi
atque omne immensum peragravit mente animoque […]. unde refert nobis victor quid possit oriri,
quid nequeat, nita potestas denique cuique
qua nam sit ratione atque alte terminus herens.
( Mentre, agli occhi di tutti, la vita umana sulla terra / era miseramente oppressa sotto il peso della religione […],/un uomo, un Greco, per primo osò alzare gli occhi suoi mortali/ e, ancor per primo, opporsi ad essa […]/La forza vitale dell’animo prevalse, dunque egli/ avanzò al di là delle mura ammeggianti del mondo/ e percorse con la mente e l’anima tutta l’immensità,/ da dove, vincitore, rese a noi [la conoscenza di] ciò che/ può nascere e ciò che non può, e della ragion per cui/ a ognun si dia potere limitato e un termine sso nel tempo.)
Scandito in questi versi è l’anelito alla conoscenza, alla libertà e alla creatività che anima gli spiriti liberi – artisti in primis, ma anche scienziati, scrittori e teatranti e burattinai. Non a caso agli esordi di ogni dittatura, comprese quelle che hanno insanguinato il Novecento in Europa, Cile e Argentina, sono le luci dei teatri a spegnersi prima ancora che serrino i battenti le “fucine” di parola scritta non asservibili al potere e si dia fuoco ai libri proibiti così come alle opere d’arte scomode.
Eventi del genere hanno segnato l’Asia e l’Africa anche in anni recenti, mentre nella cosiddetta digital era di quel terzo di mondo globalizzato che ne beneficia, il processo per eresia a Galileo Galilei non è bastato a evitare che Rita Levi Montalcini dovesse arguire “non si può mettere il lucchetto al cervello”.
Piangono le Muse guardando alle terre fra oriente e occidente segnate dal cadere di Palmira, Nimruq e altri siti millenari nelle mani di chi teme la memoria di civiltà: quale specchio implacabile del vero, l’eredità della Magna Grecia restituisce la loro immagine abominevole di bruti accecati dal fanatismo religioso che non coltivano né le messi, né la bellezza, né le arti. Focalizzando il nostro sguardo sulla produzione artistica del nuovo millennio, con la sua pluralità di linguaggi, approcci tematici, mediali ed estetici, risulta evidente che – oggi come ieri – le arti rappresentano una forza inesauribile quanto multiforme di opposizione a poteri occulti, lobby o regimi forieri di negazione di libertà, opportunità e diritti.
Si pensi per esempio all’artista iraniana Morehshin Allahyari, che nel 2015 ha ricevuto Premio speciale “Lorenzo il Magnifico” dalla Florence Biennale per Material Speculation: ISIS, progetto che fonde tecnologia, ricerca storico-artistica e scultura per la conservazione del patrimonio culturale dell’umanità.
Il caso più eclatante, tuttavia, è forse quello di Ai Weiwei, nominato “the most powerful artist in the world” dalla redazione di “ArtReview” nel 2011. Ambasciatore di Amnesty International, ha denunciato l’incarcerazione subita come azione repressiva del governo cinese nei suoi confronti per il suo fare artistico, di forte impatto e non privo di spinosi risvolti politici. Peraltro, analoga sorte era toccata al padre di questo artista dissidente, il poeta Ai Qing.
Queste esperienze di libertà ingiustamente negata, affrontate forse pensando a un’ideale evasione sulle ali della creatività, hanno forse ispirato l’artista a realizzare l’installazione With Wind (2014), il gigantesco drago-aquilone mosso dal vento attraverso il New Industries Building di Alcatraz .Nel settembre 2015, a Londra, Ai Weiwei ha guidato la marcia di otto miglia per esprimere solidarietà ai rifugiati di tutto il mondo insieme ad Anish Kapoor, considerato da molti il più grande artista del nostro tempo per la sua capacità di osservare e rappresentare simultaneamente una realtà e il suo contrario.
Ai Weiwei, rimarcando come ogni essere umano si ritrovi ad essere in qualche modo a “cercar rifugio” nel corso dell’esistenza, in quell’occasione ha posto l’accento sul valore della compassione nell’accezione delle discipline orientali.
Questa presa di posizione di due “icone” dell’arte contemporanea in relazione al fenomeno dei rifugiati trova un parallelo nella nozione di “prophetic activist art” delineata da Tom Block, artista-ideatore del Shalom Project e del Human Rights Painting Project presso Amnesty International, ribadendo come essa vada oltre la semplice denuncia sociale espressa dalla “shock or rage art” poiché tesa a infondere un “healing impetus” (impeto di guarigione) nella società in generale.
E aggiunge che “Unendo concezioni storiche del profetico al nostro culto post-moderno dell’individuo, questo modello offre un palliativo spirituale contemporaneo per lenire l’animo umano. Introduce un misticismo dell’azione per cui l’antica ricerca di realizzazione personale è sostituita da un ideale dell’individuo con potere sociale, che fa rivivere Dio in questo mondo attraverso l’azione. […]. Gli artisti-attivisti profetici devono considerare le questioni a portata di mano, comprenderle, e offrire una candela per aiutare a far luce sulla via d’uscita da qualsivoglia problematica sociale o culturale in cui siano essi stessi coinvolti. Questa luminescenza è fornita mediante l’attivazione di particolari energie attraverso il lavoro dell’artista”. (Tom Block, “Prophetic Activist Art: Art Activism Beyond Oppo- sitionality”).
Alla luce di quanto sopra assumono valenza particolare le parole di Anish Kapoor riguardo alla marcia da lui guidata con Ai Weiwei, una “walk of compassion that is peaceful, quiet, creative”. Più che l’attivismo, ciò che lega Anish Kapoor e Ai Weiwei sotto il pro lo artistico è la capacità di coniugare passato, presente e futuro scavalcando qualsiasi linea di demarcazione fra discipline (arte e architettura, ad esempio), media e linguaggi per restituire “visioni” intelligibili e di forte impatto emozionale a un’audience che parrebbe non avere limiti. Un’audience plurale che nei loro lavori riesce istintivamente a cogliere significati politici, poetiche, risvolti spirituali e istanze estetiche.
Si pensi, ad esempio, agli Sky Mirror e al Cloud Gate di Kapoor, la cui estetica esprime la convinzione che “it is the artist’s duty to nd poetic meaning in things” (sia dovere dell’artista trovare poesia nelle cose). Come non citare poi dire l’installazione F-Lotus (2016) di Ai Weiwei sul tema dei migranti nello stagno del Castello del Belvedere di Vien- na. In quella residenza ha sede la 21er Haus, che quest’anno ospita la mostra personale “Translocation-Transformation” dell’artista, il cui motto è “Everything is art, everything is politics”.
Su questa affermazione, che lo avvicina ad artisti-attivisti quali David Hammons, Robert Gober, e Doris Salcedo, avrebbe certo convenuto Nathan Lyons, fotografo e scrittore attivista che, sul finire degli anni Sessanta, dopo aver lasciato il ruolo di curatore alla George Eastman House/International Museum of Photography di Rochester (New York), fondò il Visual Studies Workshop, o VSW (galleria, biblioteca, archivio, nonché centro studi e casa editrice).
Su come si relazionassero arte, attivismo ed estetica in quel contesto, certamente noto ad Ai Weiwei, ha fatto luce Grant H. Kester con la sua analisi critica di articoli scelti pubblicati nella rivista del VSW, AfterImage. Da quegli scritti si evince l’idea che, lungi dall’essere essere in antitesi con l’estetica, la activist art, possa invece tradursi nella sua espressione più legittima (G. H. Kestner, “Ongoing Negotiations: Afterimage and the Analysis of Acti- vist Art”).
A suffragio di quel convincimento potremmo citare diverse sculture e installazioni di Ai Weiwei quali Divina Pro-portio (2006), F-Size (2015), Grapes (2014). With Wind (2014) così come Tea House e Circle of Animals/Zodiac Heads,Circle of Animals/Zodiac Heads (2016), presentate a Vienna, rivelano come Ai Weiwei nutra un profondo senso di appartenenza alla Cina, ma un altrettanto forte senso di ribellione a una cultura segnata da governi tutt’altro che garanti della libertà di espressione.
Questo aspetto, esplicitato anche nella prima retrospettiva italiana di Ai Weiwei, “Libero”, a Firenze, Palazzo Strozzi, caratterizza il sentire di ogni individuo creativo che abbia sofferto la privazione di libertà personale, di pensiero o di espressione.
Non fa eccezione Ma Jian, noto per i suoi scritti su temi censurati in Cina, e preceduto da molti autori. Attraverso l’arte, ha restituito i loro sguardi e le loro storie Luisa Raffaelli, artista eclettica che spazia dalla fotografia al video all’installation art. Nella sua mostra personale evento-off del Salone Internazionale del Libro di Torino 2015, ha ripreso l’idea all’origine dei Flying Books che aveva presentato anni prima a Firenze, nel Castello di Volpaia, dando vita allora a un discorso sulla libertà di espressione drammaticamente aggiornabile al contemporaneo. Quei “libri in volo” affascinarono Giulio Einaudi, forse perché rispecchiavano quella leggerezza che l’editore tanto amava nella scrittura di Calvino, o forse perché gli ricordavano quell’ideale di libertà mai sopito e messo a dura prova nel 1935. Sulla superficie increspata delle loro pagine in tela e piombo argentato la parola non è segno, bensì scintillio di luce riflessa, ossimoro di ciò che diviene storia.
In alcuni Flying Books si scorge lo sguardo di autori che hanno subito la censura. Primo fra tutti Bertolt Brecht, esule mai tacitato nonostante il rogo dei suoi lavori a Darmstadt, il quale descrisse la sua condizione di esule nella celebre poesia Über die Bezeichnung Emigranten. A al commediografo tedesco si aggiunge Federico Garcia Lorca, poeta amato in tutto il mondo, le cui opere furono bandite in Spagna fino alla fine della dittatura franchista. Vi sono poi Boris Pasternak e la scrittrice bengalese attivista per i diritti delle donne Talisma Nasreen, alla quale è stato assegnato il Premio Sakharov per la libertà di pensiero (1994) e l’Humanist Award dall’Unione Internazionale Etico-Umanistica (1996), ma la cui autobiografia è tuttora al bando nel suo Paese d’origine.
Ad animare l’universo di “libri in volo” di Luisa Raffaelli è anche il romanziere e sceneggiatore iraniano Shahriar Mandanipour, vincitore del Mehregan Award (2004), del Golden Tablet Award (1998) e del premio della critica per il miglior lm al Press Festival di Teheran (1994). All’autore di Censoring an Iranian Love Story e The Book of Shahrzad’s Ghosts il governo del suo Paese ha vietato la pubblicazione nel periodo compreso fra il 1992 e il 1997, costringendolo così a emigrare negli Stati Uniti. Le storie di Mandanipour sono enigmatiche tanto quanto il suo approccio creativo al linguaggio, che questo scrittore elabora per evocare una dimensione so- spesa fra realtà e illusione, mai totalmente distaccata né dall’u- na né dall’altra.
È una dimensione analoga a quella in cui opera Luisa Raffaelli, che con la sua serie di scatti fotografici “Nido” paradossalmente coniugava escapismo e attivismo ritraendo una ragazza munita di scudo e altoparlante che urla contro o si difende dal mondo che percepisce come ostile e a cui fa opposizione restando però circoscritta nel suo improbabile “rifugio naturale”.
Con i suoi Flying Books Luisa Raffaelli si oppone a quella parte di mondo che priva gli individui della libertà di espressione. Riprendendo il messaggio di scrittori tacitati, aggiunge dunque la propria voce all’eco di un racconto infinito, permeato di inedite alchimie. L’ineffabile si esprime, a dispetto di qualsiasi censura, attraverso sguardi catturati in una immagine riflessa sui fogli argentei di questi “libri in volo” che restituiscono e al tempo stesso incorporano luce. Come direbbe il fiammingo Karel Van Mander, quella che qui si sprigiona è la lux del giorno ma anche quella interiore (riflesso del divino) di autori che hanno lottato con chi voleva impedire loro di scrivere, di dire, di essere. A suo modo, nell’opporsi per immagini al silenzio imposto a scrittori, poeti e commediografi, Luisa Raffaelli offre quel “palliativo spirituale contemporaneo per lenire l’animo umano” teorizzato da Block.
Forse questa artista torinese non prospetta soluzioni vere e proprie ai mali che la circondano, come invece avrebbe voluto il teorico della Prophetic Activist Art. Riproponendo per immagini il pensiero di scrittori e poeti perseguitati, esiliati o uccisi, alla stregua di costoro, Luisa Raffaelli “offre prospettive, non consuntivi”, come aveva detto Giulio Einaudi riferendosi ai suoi autori preferiti. D’altro canto, offrire soluzioni non è necessariamente lo scopo dell’arte quale espressione di pensiero critico.
Come ha osservato Michel Foucault, “la critica non deve essere la premessa per una deduzione che conclude:questo è dunque ciò che si deve fare. Dovrebbe essere uno strumento per coloro che combattono, quelli che oppongono resistenza e rifiuto a ciò che è”. (M. Foucault, “Que- stions of Method”).I Flying Books di Luisa Raffaelli sono dunque “libri che hanno vi- sto e che vedono”, dice l’artista, che esprimono ciò che sta oltre la parola e l’immagine opponendosi a ogni possibile tacitazione, oppressione o limitazione. A tutto ciò si sottraggono grazie allo spirito indomabile di autori il cui sguardo permea la stessa essenza di questi libri d’arte, “in volo” fra memoria e immaginazione, per sfuggire al dogmatismo e alle barriere culturali di un mondo in continua trasformazione.