Articolo di Anna R. G. Rivelli estratto dalla rivista Sineresi n.3
Un cavallo, una pecora, un ominide; una dea di antica bellezza, un giovinetto eroico ed eterno. Comune denominatore: la carne. Si può essere bianchi, gialli, neri; si può essere insulsi o incantatori; si può abbaiare o nitrire, belare o ridere, avere un dio o non averne, o averne cento, mille: nella carne è il dolore e nel dolore l’anima.
Tutti gli di un dio, lo stesso o uno qualunque, o dio noi stessi; tutti oltre quello che appare, accomunati e vivi nella parte più orrida di noi che protegge e cela il nostro essere eterni, quel soffio vitale che ci fa spirito nello spirito, che ci imprigiona in un obbligo di amore.
Raccapriccianti, sconvolgenti, disgustose perfino, le sculture di Cao Hui sono un viaggio nell’inconscio dei nostri corpi, un vademecum per la nostra arroganza antropocentrica, una decurtisiana “Livella” pre morte. Imitare la natura non basta più, bisogna penetrarla, comprenderne il mistero, denunciarne le verità nascoste.
“Sembra che gli artisti non siano più felici di essere solo artisti – dice Cao Hui – ma che siano guidati dal loro innato amore per la performance per provare nuovi ruoli , come il filosofo, lo scienziato, il medico o forse anche l’ingegnere. Credo che gli artisti vogliano veramente giocare a fare Dio più di ogni altra cosa, e non si fermeranno davanti a nulla pur di costruire una verità che rafforzi il sé”.
Giocare a fare Dio significa, però, creare; creare, come Lui, dal nulla o creare, come Cao Hui, andando oltre il nulla dell’apparenza, calarsi nel reale per trovare l’iperreale, nella carne per liberare l’anima.
Le sue sculture sono sferzanti come domande retoriche a cui si vuole negare risposta; terrificanti come solo sa essere la verità di fronte alla coscienza sopita del mondo; misteriche come un culto iniziatico di tragica e oscura potenza. Saper guardare oltre è un lusso che va condiviso; significa non perdere mai di vista la vita, non smarrirne il senso; significa empatizzare il palpito dell’universo, trovare l’altezza nella condivisione orizzontale dell’esistenza.
Perciò il nostro sguardo stupito di fronte alla bellezza ha bisogno di trovare il meraviglioso orrore della sua essenza. Non importa che sia la Venere di Milo, il Davide di Michelangelo, un maiale bipede o un bovino seduto: sotto la pelle è tutto muscolo, nervo, ossa e sangue. È tutto anima. Ed è anima perché la carne altro non è che l’abito con cui lo spirito si palesa a noi, è il concreto per l’astratto, la parabola evangelica per il nostro occhio così limitato.
Così Cao Hui come Dio ci interroga sulla vita e sul dolore di quel mondo “non umano” di cui l’uomo si è fatto padrone, addita quel sistema economico che nega la sofferenza, l’emozione, il diritto stesso all’esistenza agli animali ora, e che un poi -forse neanche tanto lontano- li negherà anche a quella “umanità inferiore” già spesso liquidata con un diniego.
Non c’è in questo artista cinese quel mancato riconoscimento che il sociologo Stanley Cohen diceva essere la prima e più profonda radice dell’immoralità collettiva. C’è invece la realtà gridata nella poltrona che si squarcia lasciando debordare le interiora, nella borsa in cui ancora sembrano palpitare gli organi, nei guanti di carne viva che vestiranno una mano assassina. C’è l’urlo della sofferenza misconosciuta negli animali “nudi”, derubati della loro dignità di esseri senzienti prima ancora che della loro pelle. E c’è come un monito, la proiezione di un giudizio universale imminente, nelle antiche statue scomposte, affettate, frugate nelle viscere, tradite dal sangue che rende orripilante la loro eterna bellezza.
Le sculture di Cao Hui non attraggono, respingono; si lasciano guardare di traverso forse, solo sperando che non ci siano ancora, che siano magari un incubo fugace; e invece le resine, i colori sobri, la tridimensionalità apparecchiano il sacrificio più realisticamente cruento sull’altare delle nostre coscienze di spettatori.
C’è da chiedersi se mai continueremo ad indossare una giacca di pelle senza avvertire quel nauseante odore umido di macelleria, se mai più veleremo col silenzio lo sguardo mesto d’agnello scuoiato. Non c’è da chiedersi invece se è arte quella che violenta il senso comune ed espropria secoli di costume; non c’è da chiederselo perché l’artista forse non gioca a fare dio, piuttosto è frammento dello specchio di dio e perciò un dio egli stesso. E dio, qualsiasi dio, ha braccio fermo e voce che risuona tonante.
“The Artists rst delude themselves, then maybe move on to people around them”