Articolo di Daniele M. G. Cafarelli estratto dalla rivista Sineresi n.5
Mai come oggi è possibile affermare con certezza che si sta vivendo nella società delle immagini, dei consumi e soprattutto del consumo delle immagini. Una società sintomatica di una cultura della velocità, una cultura che ci intima di avere fretta, di gestire la nostra vita in maniera celere e che molto spesso ci impedisce di conoscere no in fondo non solo il mondo, ma addirittura noi stessi, trasformando la velocità di cui la società si fa vanto in una sconcertante superficialità.
In questo mondo delle apparenze ha quindi il potere chi è capace di imporre il proprio modello di apparenza, la propria immagine sugli altri, e trasformarla in canone di bellezza e desiderabilità definitiva (cercando di mascherare l’impossibilità di ogni desiderio di sopravvivere a se stesso).
I media appunto diffondono le immagini di cui noi siamo fruitori e noi, ponendoci nella condizione di inferiorità della quale già ci avvertiva Pasolini denunciando la televisione, vogliamo imitare quelle immagini, mascherare la nostra natura, perché quelle immagini che corrono da uno schermo all’altro sono emblemi di uno status sociale che il mondo “preconfezionato” dell’intrattenimento, dello sport, della pubblicità ci spinge a desiderare.
Proprio di un’estetica “preconfezionata” e pubblicitaria si serve il regista spagnolo Eduardo Casanova che con il suo “Pelle” (“Pieles” in originale, 2017) cerca di abbattere questo albero genealogico, ribaltando l’immagine no quasi a distruggerla (in particolar modo quella considerata canonicamente bella), quasi violentando l’inquadratura con il forte contrasto che deriva dall’accostamento del rosa shocking, praticamente onnipresente nella pellicola, con la diversità e le deformità che in alcuni casi diventano polemicamente grottesche.
L’ossessione della società per il corpo diventa qui un’ossessione del suo disfacimento, e questo non riguarda solo i protagonisti deformi, ma anche i comprimari normodotati che orbitano loro intorno, a partire dalla maitresse del bordello all’inizio del film, fino alla cameriera della tavola calda. Il corpo e tutte le azioni ad esso collegate, dal mangiare all’amplesso, sono viste in maniera traumatica, quasi di rigetto.
Il rigetto e il rifiuto sono temi portanti della pellicola: il primo è quello dei protagonisti verso se stessi e il proprio corpo, mentre il secondo è operato dalla società verso di loro. Società che, tra le altre cose, risulta essere fortemente nevrotica e questa nevrosi emerge con maggiore forza in due personaggi, la psichiatra di Chris (uno dei protagonisti affetto da somatoparafrenia) e il padre di Samantha, quest’ultimo così ossessionato dalla paura di perdere la figlia da costringerla a soffocare la propria individualità.
Le storie dei vari protagonisti si incontrano con grande abilità narrativa, mostrando che dietro ad ogni personaggio e alla sua apparenza si nasconde qualcosa di più che una macchietta. Questo però trova un’eccezione nel personaggio di Benavides, produttore dello show televisivo in cui Vanesa (un’altra protagonista affetta da acondroplasia) interpreta Pinkoo, emblema dello status di desiderabilità. Lo scarso spazio riservato al personaggio del produttore e la di lui povera caratterizzazione diventa un atto polemico poiché Benavidez rappresenta quella categoria di persone di potere (come i media televisivi) che irradiano quello stereotipo di bellezza che questo film tenta di sfatare e distruggere.