Articolo di Marco Lovisco estratto dalla rivista Sineresi n.3
Sarebbero mai esistiti gli dei se non ci fosse stata la morte? Sarebbero esistite le religioni? A questo si pensa ponendosi di fronte all’opera For the love of God, del discusso (e apprezzato) artista britannico Damien Hirst. Il teschio, da sempre tramite tra il mondo degli uomini e quello degli dei, in questo caso diventa prezioso feticcio riservato ad un’elite privilegiata, che può permettersi di acquistare un teschio umano autentico fuso in platino e ricoperto di 8.601 diamanti, incluso un diamante rosa a forma di goccia, posto sulla fronte.
L’opera può essere considerata la summa dell’arte di Damien Hirst che, giocando da sempre con il tema della morte, ha deciso con quest’opera di esaltare il potere di un mistero su cui si sono fondate gerarchie sociali e religioni. Quella del teschio non è stata una scelta casuale. Il suo potere evocativo ha esercitato un fascino ancestrale sull’uomo in tempi, culture e luoghi diversi, segno di un istintivo rispetto e un’innata devozione.
Nel tantrismo tibetano di matrice induista o buddista il teschio umano viene utilizzato come coppa in diversi rituali sacri. Viene chiamata “kapala” ed è ricavata dalla calotta cranica. L’osso viene scavato, finemente scolpito e infine decorato con abbellimenti in metallo e pietre preziose fino ad ottenere come prodotto finale un oggetto di pregio che sembra perda il suo riferimento con l’essere umano per diventare opera d’arte e sacro talismano.
In molte rappresentazioni sacre dell’arte orientale le divinità indù stringono tra le mani la kapala usata per raccogliere il sangue, ma tale uso cruento pare più legato alla narrazione che ad un reale uso dell’oggetto. I sacerdoti tibetani pare che la utilizzassero per scopi meno “sanguinosi”, impiegandola per custodire pane o dolci a forma di occhi, lingue e orecchie da offrire agli dei. In questo modo il teschio, simbolo di morte viene legato all’atto del nutrirsi, alla base della vita.
Questo legame apparentemente antitetico si riscontra non soltanto nella cultura orientale, ma anche in quella del centroamerica, in Messico, dove il giorno dei morti (Día de los Muertos) si celebra offrendo ai defunti variopinti dolci di zucchero (alfeñiques) a forma di teschio (calavera). Il termine “calavera” (cranio), oltre a indicare questi caratteristici dolciumi, è usato anche per definire ogni rappresentazione del teschio umano in forma artistica: sculture, dipinti, tatuaggi o litografie, come quelle celebri di José Guadalupe Posada.
L’incisore messicano (morto nel 1910) amava ritrarre nelle sue opere alcuni teschi agghindati con lussuosi copricapo o scheletri con indosso gli abiti tipici della borghesia dell’epoca. Il suo ritratto più noto è sicuramente la “Calavera de la Catrina” (“Il teschio della gran dama”). Lo scopo delle opere di Posada è quello di ironizzare sulla caducità e l’inutilità di alcuni atteggiamenti sociali che appaiono fatui se rapportati alla fragile condizione umana.
Da queste opere prenderà spunto un altro grande artista messicano, Diego Rivera, famoso anche per essere stato il marito della pittrice Frida Kahlo. Rivera inserirà infatti la “Calavera de la Catrina” nella sua opera del 1948 “Sueño de una tarde dominical en la Alameda Central”. Una curiosità: nel murale, oggi conservato in Messico al Museo Mural Diego Rivera, al fianco della calavera è ritratta Frida che ha una mano posata sulla spalla di un bambino, il cui volto riprende i tratti somatici dell’artista.
Alla luce di tutto questo possiamo presumere che nella cultura centroamericana il teschio assume una valenza più popolare (per non dire “pop”) diventando una figura familiare che diviene spunto per t-shirt, souvenir e variopinti tatuaggi. ll teschio perde quindi la sua austerità e concede maggiore spazio alla creazione artistica, lasciandosi ritrarre come monito di morte e s da alla vita.
Lo aveva intuito il maestro del surrealismo Salvador Dalì che aveva “sfidato” il potere sciamanico del teschio dando vita alla più sensuale rappresentazione della morte, facendosi ritrarre dal fotografo Philippe Halsman dinanzi a un teschio composto da sette modelle completamente nude. L’opera, dal titolo “In voluptas mors” (1951) è diventata un’icona per via della sua bellezza compositiva, per l’idea creativa e per il significato insito nell’opera, capace di miscelare in un unico colpo d’occhio morte, vanità e piacere erotico.
Che il teschio abbia perso la propria aurea di sacralità lo dimostrano le numerose stampe che vediamo su t-shirt, sticker e oggetti di design che sempre più lo qualificano come oggetto puramente estetico. L’artista cinese Jacky Tsai, ad esempio, con il suo progetto “Floral Skull Original” trasforma il teschio in una composizione floreale con una resa estetica di indubitabile effetto, tanto che il celebre stilista Alexander McQueen collabora con l’artista alla creazione di una linea di abbigliamento “Skull Style”.
Se le opere di Tsai scollegano del tutto il teschio dal sacro, ci pensa ancora una volta Damien Hirst a fare ordine restituendogli il suo potere di mediazione tra il mondo degli uomini e quello degli dei. In una società in cui l’unica divinità pare sia la quantificazione economica di beni e persone, ricoprire il teschio di diamanti pregiati appare l’unico modo possibile per restituirlo al suo ruolo ancestrale di feticcio da adorare e misterioso medium nelle mani di caste privilegiate.