Articolo di Roberto Lacarbonara estratto dalla rivista Sineresi n.2
Il “realismo psicotico dell’arte contemporanea” preconizzato da Perniola (2001), e già al centro dell’estetica lacaniana, è uno dei caratteri più ostici al centro della copiosa produzione di opere che ricorrono all’utilizzo, all’esibizione e alla commercializzazione della materia organica. Non più, o non solo, la presenza ipertrofica del “corpo d’artista” al centro del progetto autoriale, bensì il superamento – talvolta oltraggioso – della sua stessa “individualità”, della sua unità funzionale e strutturale, a favore di uno smembramento in cui organi, frammenti e secrezioni giungono all’estrema ostentazione.
Una tale messa in scena del reale corrisponde a una forma di realismo che, sebbene giunga a esiti intriganti già negli anni ’60 (come nelle ricerche del gruppo “nouveaux” di Pierre Restany), sembra tuttavia rincorrere, in tempi recentissimi, forme estreme e posteriori, deiezioni del reale corporeo ridotto a materia molecolare.
Indubbiamente spetta a Piero Manzoni uno degli atti primordiali di questa proposta artistica che promuove persino gli escrementi a oggetto dell’arte. Tuttavia, il caso Manzoni va annoverato nel novero di un vero e proprio “atto mancato”, negazione dell’enunciazione, sigillo di non-visibilità e non- accesso rispetto a quanto dichiarato sulla “serie” di “Merda d’artista”. E la stessa serialità declina l’ipotesi di un gesto affatto intenzionato a un’esegesi della secrezione organica, bensì a una riduzione a marchio, o impronta, di tutto quello che il sistema qualifica come “arte”.
In contesti totalmente differenti, invece, l’opera di artisti come Gina Pane, ORLAN, Franko B, Stelarc – prodotta nel pieno di una rivoluzione della morale e del costume occidentale – ha inferto un colpo ferale all’idea di un soggetto-agente in grado di manipolare la realtà ai fini della rappresentazione. Senza alcuna velatura, l’artista assume il proprio corpo come luogo di un acting-out dell’orrore: corpo straziato, tagliato, lacerato, mutilato, deformato, invaso da supplementi tecnologici, alterato nelle sue funzioni. Brillante la tesi di uno degli studiosi e curatori epigoni del fenomeno, Jeffrey Deitch, che intese come “post-human” tutta una serie di azioni destinate a scardinare l’umanezza dell’artista, la sua compiutezza di corpo e psiche.
Uno dei punti di maggior criticità è tuttavia rappresentato dalla spregiudicata assunzione della materia organica come strumento di rappresentazione del sacro e della spiritualità, ovvero la deliberata intenzione di profanare i termini più profondi del pensiero mediante le sostanze che il corpo esclude. In un cortocircuito giocato sul doppio senso di lecito e illecito, morale e immorale, Andres Serrano ricorre all’escremento per significare una espulsione molto più problematica e radicale, ovvero quella sociale, culturale e religiosa.
Nella controversa opera “Piss Christ” (1987), il fotografo statunitense immerge un piccolo crocifisso di plastica in un contenitore di urina. La blasfemia di Serrano si autoalimenta grazie a una inversione del paradigma transustanziale che, paradossalmente, traducendo il corpo-organico in oggetto-opera riporta lo spirituale al di qua della sfera umana ponendosi come atto di denuncia “contro” la secolarizzazione e il disprezzo del divino da parte dell’uomo. Non è l’unico intervento che Serrano produce a partire dalla materia organica. Due opere successive “Blood and Semen III”, creata con sangue e liquido seminale, e “Piss and Blood”, creata con urina e sangue, diventeranno addirittura le copertine di due dischi dei Metallica: “Load” e “ReLoad”.
“…Sono stato educato a vergognarmi del mio corpo. Uso sangue, urina e merda come metafora perché è questo ciò che sono…”. La dichiarazione di Franko B, artista milanese residente a Londra dal 1979, rappresenta, tra tutte, l’esperienza più radicale nel processo di identificazione tra vita e arte: una contiguità giocata in verità sull’orlo della critica sociale e morale. Il corpo dell’artista diviene infatti corpo sociale, luogo della denuncia, zona di modificazioni indotte dall’esterno e non controllabili. Nelle performance degli anni ’80 e ‘90, il sangue sgorga dalle sue vene tagliate e si sparge sul suo corpo in un rituale viscerale e liminale. Per preparare le sue performance, l’artista arriva a raccogliere anche due litri di sangue al giorno per quattro, sei settimane prima dei suoi spettacoli (dopo alcune sue performance è stato spesso ricoverato per aver perso quasi un litro di sangue in meno di quindici minuti). “…Per me – prosegue – il sangue è qualsiasi cosa. Il mio sangue è il mio corpo. Quando lo sento, mi dà un senso di libertà, specialmente il fatto che sia il mio sangue, non lavoro con il sangue animale, o qualsiasi altro sangue perché non potrei avere relazioni con esso. Inoltre la gente ha vergogna dei propri fluidi corporali. Sono spaventati dai loro rifiuti, pensano che siano cose molto private, che quel che c`è nel corpo deve rimanere nel corpo…”.
Con Marina Abramovic invece il meccanismo estetico si ribalta. L’artista è deprivato della propria identità, il pubblico è il protagonista di una manipolazione che “opera” sul corpo dell’artista superando i limiti della vergogna e del pudore. In “Rhythm 0” (1974) la Abramovic dispone 72 oggetti su un tavolo in una stanza: oggetti di piacere, dolore e morte. Il pubblico è invitato ad usare gli stessi oggetti nei confronti dell’artista, al solo ne di provarne godimento o, a tratti, sadismo. Dopo una iniziale titubanza, il pubblico si scatena; i vestiti di Marina vengono tagliati con le lamette, in seguito stessa sorte spetta alla pelle dell’artista. Alcuni uomini le succhiano il sangue dalle ferite giungendo ad assumere atteggiamenti inclini alla violenza sessuale. Estremo il momento in cui nelle mani dell’Abramovic viene messa la pistola carica, appoggiata e diretta al collo, con un dito della stessa artista appoggiato sul grilletto.
Il limite tra vita e morte, e quello tra organico e inorganico, rappresenta dunque la costruzione di uno spazio totale e indistinto dove ogni possibilità estetica ha luogo: emotiva, sensoriale, carnale, erotica, mortale.
È la profezia di Artaud e di Deleuze: come farsi un corpo senz’organi. “Un campo di carne – spiega Perniola nel già citato saggio “Il sex appeal dell’inorganico”, (1994) – che è illuminato da giorni i quali hanno la stessa durata delle notti, che è immerso in un clima senza variazioni: esso è un territorio che non conosce stagioni sempre sprofondato in una umida calura che decompone e disfa ogni forma. Il corpo senza organi, che non appartiene a nessuna volontà, che non obbedisce a nessun progetto, che è libero da ogni vincolo, sembra liquefarsi in un fluido che tuttavia non ha niente di vitale, né di spirituale”.
In tutti i casi suddetti, si tratta dunque di intendere l’organico non tanto – o non solo – come pigmento, mezzo alternativo al tradizionale materiale pittorico, bensì come vera e propria pratica rituale svolta tra estasi e autolesionismo.
Centrale l’esempio dell’Azionismo viennese – pensiamo ad Arnulf Rainer, o a Rudolf Schwarzkogler, morto, si dice, in seguito ad un tentativo di auto- castrazione – e di molta Body art. O ancora Chris Burden che si fa sparare nel braccio per esibire la propria resistente pulsionalità; Gina Pane che si tagliuzza la pelle con una lametta affilata; Clau- dio Cintoli che rappresenta nascita e morte attraverso un’azione basata sul sangue mestruale; e Tracey Emin, l’autrice del lavoro più noto su questo versante: l’installazione “My Bed “ – letto dell’artista disfatto e cosparso di sangue e contraccettivi – vincitrice nel 1998 del prestigioso Turner Prize.
“Tutto non è che Dioniso”, sosteneva Schelling a proposito del- la poesia. Perché difatti la creazione artistica è sempre un atto dionisiaco speso nella relazione tra interiorità ed esteriorità. Fino a intendere, fuor di metafora, persino la più abissale interiorità, quella fuori dal campo del visibile e del plausibile. Quella che spaventa la morte e che imbarazza la vita.