Giovanni Dell’Acqua, artista materano, rappresenta, per certi versi, un aspetto nuovo, quasi anomalo della cultura artistica locale. E’ un artista che, nell’ambito della pittura materana, è possibile ricollegare, su un piano ampiamente operativo più che specificatamente linguistico, ad alcuni precedenti, anch’essi anomali quanto autonomi e altrettanto problematici e indicativi di una sentita e cosciente esigenza di svincolamento da luoghi comuni, sottoletterari e stagnanti; questi precedenti possono facilmente essere individuati, genericamente più che linguisticamente soltanto, in artisti quali Anna Ambrosecchia (in particolare gli acrilici e i lavori di impostazione geometrica e modulare del 70-73), Franco Di Pede, Aldo Gravina 8i suoi studi sulle carte) e Nino Fortunato, con le sue fantasie organiche. Artisti, questi, che rappresentano delle trasgressioni tra loro ben diversificate e motivate da esigenze variamente giustificate e positive, rispetto al ristagno degli interessi didascalici e illustrativi delle richieste e delle proposte artistico-culturali locali, ferme al Guerricchio prima maniera e ai guerricchiani dell’ultima ora.
La ricerca di Giovanni Dell’Acqua e il linguaggio utilizzato per esprimerla definiscono subito il senso di una scelta che non è solamente culturale e artistica, ma, se vogliamo, è innanzitutto operativa e anche di connotazione ampiamente politica. Considerazioni queste che si giustificano con un buon margine di serietà e di credibilità, anzi questo margine diviene spazio provocatorio e criticamente stimolante specie se teniamo conto Giovanni Dell’Acqua è un figlio dei Sassi che rifiuta, come e più degli artisti prima citati, forse per eccesso di amore, di compiacersi e di sfruttare anch’egli, per l’ennesima volta e come ormai e purtroppo da più parti, da troppe, si sta continuando a fare, una realtà tragica trasformata in operetta; bloccando in tal modo la capacità di guardarsi intorno oltre i confini di un luogo, di un pretesto culturale divenuto luogo comune. La definizione di questo confine molto spesso diviene un alibi alla incapacità creativa.
Dalla melensa compiaciuta e falsamente intimistica dell’apocrifa coscienza e della sottocultura che si alimenta alla tragedia dei Sassi di Matera, si può uscire al resto del mondo, in piedi e con dignità, soltanto da due porte tra loro diametralmente opposte: dalla porta senza tempo della poesia autentica o da quella che costringe al rifiuto cosciente anche di ciò che può somigliare ad una lontana immagine di quello che i Sassi, e la loro attuale utilizzazione, sono diventati.
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Giovanni Dell’Acqua è l’infrazione, è l’elemento anomalo di un tipo di cultura che nei suoi rappresentanti più giovani cerca un respiro più ampio e storicamente più credibile senza appesantimenti autocommiserativi. I riferimenti della sua ricerca pittorica a Dell’Acqua glieli abbiamo indicati quando già era piuttosto avanti nel suo lavoro. Riferimenti che nel suo caso acquistano una connotazione di grossa ambiguità per cui, almeno nella prima fase della sua ricerca, per altro sufficientemente chiara e rigorosa, riteniamo sia più corretto tenerli da parte in quanto potrebbero inquinare quei risultati a cui l’artista è approdato solo in virtù di una autonoma intuizione. Egli è un autodidatta che, per di più, proviene da studi di formazione tecnica; questa è la sua unica matrice culturale, quasi paternità contingente del suo modo di procedere innestata sulla potenzialità ipercritica di una consapevole appartenenza culturale di stampo contadino.
E’ la freschezza della sua capacità di intuizione, innescatasi quasi spontaneamente con l’esproprio culturale e di fatto delle sue radici, che ci interessa sul piano estetico e operativo, e che si traduce molto semplicemente come volontà di uscire da schemi abusati e troppo facilmente definiti come gli unici possibili. Appena fuori, però, ecco che Dell’Acqua si costruisce nuovi schemi, apparentemente molto più rigidi, se ben guardiamo, ma che, tuttavia, pur rassicurandolo gli danno il fascino della possibilità della continua invenzione, del suo possesso totale e tutto personale, della possibilità continua di una infrazione non sentimentalmente dolorosa, come la prima costrizione (perché in sostanza egli è un sentimentale), ma mentalmente eccitante.
Forse proprio in questa volontà istintiva ed esigenza ( ‘esigenza’ da leggersi come risultante di ‘costrizione’) di autonomia culturale è anche possibile ritrovare il materano dei Sassi, sempre che questo ritrovamento giovi, poi, a qualcuno. Anche se questo tipo di individuazione (che dal nostro punto di vista può essere una sorta di forzatura che già da tempo non vogliamo più accettare come giustificazione), per i motivi prima accennati non fa certo piacere al nostro artista e rischierebbe di limitarlo in un ambito artisticamente piuttosto ristretto e collocabile, sia pure con segno contrario, al lato di quanto lo stesso Dell’Acqua rifiuta o, meglio, vuol rifiutare proprio impegnandosi nella ricerca che ora propone ad una verifica. I lavori di Dell’Acqua poggiano sulla scansione, che è poi una sorta di accentuazione progressiva, a riferimento modulare e ottico, giuocata sulla ambiguità del risultato visivo, di superfici poste come piani paralleli ognuno dei quali ha una sua propria logica di sviluppo solo in apparenza comune agli altri piani e al resto dell’intera superficie che fa da e da supporto e da pretesto (acquisito più che altro come occasione di fissione pittorica e temporale) allo sviluppo prospettico; sviluppo che è, in effetti, una specie di accentuazione abnorme (di allargamento e di riduzione, secondo che i punti di partenza siano al di qua o al di là del piano della tela) solo apparentemente unitaria.
Ogni piano definito dall’unità tonale delle sottili fasce colorate, rettangolari o quadrate che siano, ha un suo punto prospettico che non coincide mai con gli altri, ha un suo fuoco, così come indipendente dagli altri è il riferimento prospettico di ogni settore della superficie.
Questa di Dell’Acqua, per quanto possa apparire rigorosa e rigidamente informata ad un’unica legge, è una geometria assurda e fantastica le cui regole sono intuibili solamente a livello ottico ed estetico.Ogni tela, specie le strutturazioni cruciformi e reticolari rettangolari, può essere letta come sezione unica, tale per una irripetibile casualità, e anomala in cui si incontrano progressioni lineari provenienti da punti tra loro molto distanti e tra loro uniti solo dal fatto di poggiare su parallele.
Il suo è un modo di uscire dalle due dimensioni della superficie utilizzando il rigore, a livello essenzialmente linguistico, della strutturazione geometrica come puro e semplice pretesto. E questo è confermato dalle scale cromatiche, a volte mono-tonali, a volte tese arbitrariamente, secondo una logica coloristica tutta personal, a trasgressioni e cui criteri sono giustificati solo a livello estetico e personale.
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Il suo situarsi in spazi espressivi più ridotti diviene intuizione di uno spazio esterno sempre più ampio che, impossibile da definire, è lasciato rifluire come possibilità continua in un segno rigido (quadrato e rettangolo nella loro trascrizione piana e perimetrale) definito e utilizzato per iscrizioni continue. La razionalità apparente è riscontrabile solo sul piano della programmazione e della realizzazione in pagina; il resto è ambiguità della forma e del colore, tutta tenuta e al tempo stesso aperta a tutte le possibilità di articolazioni e di composizione, ed è questo proprio uno degli aspetti problematici ed una intuizione interessante di questi lavori.
I riferimenti o le paternità a cui i lavori di Giovanni Dell’Acqua possono ricollegarsi o in cui possono essere assorbiti sono evidenti, e a questo punto potremmo far seguire una serie di nomi che coprirebbero un arco di cinquant’anni di arte contemporanea; ma proprio perché i riferimenti possono essere tanti ne viene che i lavori di questo artista sono sufficientemente autonomi, né, del resto, questi riferimenti, e nel caso di Dell’Acqua sarebbero tutti aggiunzioni a ricerca impostata, possono servire a qualcosa se non a confondere.
Enzo Spera