Un libro appena pubblicato che suscita in Italia una ridda di manifestazioni di disgusto e di incitazioni a non leggerlo in quanto pericoloso è cosa assai curiosa. Impone una riflessione e chiede a chi si occupa d’arte contemporanea di non lasciarsi sfuggire questa occasione.
Se si dà un’occhiata al web invece, non solo sono poche le recensioni, ma non esiste alcun dibattito.
Voglio dire che il terrore suscitato dalle testate nazionali che hanno recensito il testo non ha sortito purtroppo reazioni adeguate e a fronte dello stigma – peraltro già scolorito – gli intellettuali più seri hanno preferito lasciar cadere la polemica con altero disinteresse. Ottimo e condivisibile. Se non fossero così scarse le occasioni per parlare d’arte contemporanea in altri termini che non quelli di mercato, effettivamente si avrebbe ragione nel decidere di lasciar correre. Il libro di Tony Godfrey, “L’arte contemporanea – un panorama globale” (Einaudi 2020) però, potrebbe essere più di un semplice libro e potrebbe stimolare una riflessione d’ampio raggio. Potremmo trattarlo come un’occasione per leggere e tener di conto delle reazioni italiane, suggerendo che forse è proprio l’assunto principale del libro ad aver scatenato timori nascosti per non dire rimossi.
Il tema è il seguente: l’arte contemporanea in tutte le sue manifestazioni, non è appendice della società, non misura il potere d’acquisto del collezionista e non si conforma al presente. Anzi, nei casi più interessanti, l’arte contemporanea riecheggia problemi che affrontiamo nelle nostre vite quotidiane e ci sollecita l’etica delle nostre relazioni, facendoci riflettere sul come dobbiamo comportarci, che cosa ci racconta il nostro pensare e a cosa credere.
Come tutti i linguaggi nuovi e moderni che si adeguano al mondo, l’arte va compresa prima di essere giudicata. Bisogna conoscere e contestualizzare. Solo così ci accorgeremo che in un mondo in cui la fotografia ha preso il posto della pittura per tramandare i ricordi, all’arte possiamo assegnare compiti diversi, primo fra tutti quello di essere laboratorio di libertà.
Tony Godfrey prima d’essere critico d’arte è cittadino del mondo. Ha uno sguardo ampio, meno legato agli interessi delle piccole e medie istituzioni internazionali e ha avuto a che fare con numerose questioni tra Londra e Manila. Questioni che solo all’apparenza sembrano d’esclusiva pertinenza artistica ma che in realtà manifestano tutta la loro portata sociologica e psicologica nel mondo attuale e in ciò che ci riserva il futuro. La prima tra tutte le questioni è quella relativa all’esaurimento definitivo del Modernismo, alla quale segue quella della sfida che la pittura del futuro dovrà affrontare in rapporto al concettuale. A queste, si affiancano le vastissime conseguenze filosofiche dell’appropriazione in pittura. Della citazione cioè, specie di quella che intrattiene rapporti con l’Espressionismo e per ultimo la questione più pregnante per l’Europa che è quella del conflitto tra nazionale e globale.
L’intero capitolo primo del libro è una ricostruzione storica dei fatti del Novecento più eclatanti in termini sociologici come quello appunto dello scollamento tra un pubblico modernista con antiche esigenze e concezioni dell’arte a servizio di qualcuno o qualcosa e un privato – quello dell’artista e dell’intellettuale in genere – che problematizza, si pone enigmi di cittadinanza, accettando la propria vulnerabilità e dunque si fa sempre più postmoderno.
Attento al lavoro di artisti di tutto il mondo, appartenenti a culture e tradizioni diversissime, il libro di Tony Godfrey vuol essere una guida originale per orientarsi nella storia dell’arte degli ultimi quarant’anni. Una guida dal linguaggio semplice che invita tutti ad informarsi di più, leggere altri libri oltre a questo e soprattutto a farsi una nostra idea. L’autore è convinto che per capire l’arte contemporanea sia necessario saper ascoltare molte voci: quella dei critici, teorici, curatori, collezionisti, ma anche quella degli stessi artisti e del pubblico, fermo restando che al primo posto c’è la nostra opinione; il nostro coinvolgimento.
L’analisi si struttura intorno a sequenze di scritti e di parole dette dagli artisti sulle loro svolte creative e si avvale delle accese discussioni su cosa sia o dovrebbe essere l’arte. A ciò egli abbina i fatti della Storia mondiale e così facendo contestualizza e seleziona le opere più rappresentative dei principali artisti oggi in attività tra le Americhe e il sud est asiatico, fornendo un’interessante e accessibile introduzione ad una serie di temi pieni di fascino.
Quando il libro racconta in due capitoli gli anni Ottanta non lo fa per fare un elenco di nomi e opere ma per parlare tra le righe di questioni come identità, disastro ambientale e ultime propaggini di guerra fredda, così come farà per gli anni successivi con il grande e importante tema della vita virtuale e dei big data.
Questo testo di oltre 200 pagine è insomma un librone a copertina rigida che interpella non solo le opere, ma gli artisti stessi e i critici, chiamati a dire la loro anche su questioni più strettamente attinenti all’arte visiva come ad esempio, sull’«esperienza della pittura». Sia come pulsione a dipingere, sia come esigenza culturale di fare code chilometriche per godere “dal vivo” di una lingua che si è voluto a torto considerare morta. L’autore però, è anche in grado di fare di più, sollecitando ad esempio la nostra etica politica. Specie quando ci chiede di riflettere sulla supina accettazione dell’artista alla corruzione delle regole del mercato da un lato e sulla nostra genuflessione al capitalismo della sorveglianza dall’altro.
Quando allora, a proposito del libro e del suo autore si leggono attacchi così pesanti – soprattutto se scandalizzati a causa della vergognosa assenza di artisti italiani – scatta il bisogno di avere il libro sotto mano se non altro per dichiarare la propria distanza da questi pseudo critici difensori dell’italianità. Poi però potremmo accorgerci di qualcosa di maggior interesse per la quale avrei anch’io due o tre domande. Quelle critiche negative che arrivano fino al ridicolo e questo silenzio degli intellettuali e degli addetti ai lavori più seri, sono due elementi valutabili? Comunicano entrambi qualcosa tra le righe?
È possibile che nei due fronti sia temibile proprio il carattere altamente divulgativo, aperto e laico del libro e del suo autore? Forse anche tra i critici più blasonati e i professori universitari manca l’attenzione verso questa prosa pulita che sa anche essere provocatoria, specie quando racconta storie seppure parziali che possono sconcertare o divertire. Forse manca da parte degli intellettuali la forza di ricominciare da capo e di tornare ad occuparsi di questioni, purtroppo ancora aperte, come quelle dettate da un pubblico che chiede ancora “Cosa significa? A cosa serve? È davvero arte?”.
È possibile pensare che all’ingenuità e semplicità apparente delle consuete domande non si sappia più rispondere per incapacità, per rinuncia alla libertà di pensiero o per semplice supponenza da parte di una critica d’arte che ha evidentemente abdicato a questo compito? Insomma, questo libro minaccia o divulga?
Matilde Puleo