The Cleaner è il titolo della retrospettiva dedicata a Marina Abramović, artista serba naturalizzata americana, in corso a Palazzo Strozzi a Firenze fino al 20 gennaio 2019. Si tratta di una selezione di più di cento opere che ripercorre le tappe principali della produzione artistica della performer più nota del mondo contemporaneo.
“L’artista non dovrebbe aver autocontrollo sulla sua vita, L’artista deve avere totale autocontrollo sul suo lavoro. Un artista dovrebbe guardarsi dentro per arrivare all’ispirazione. Più l’artista guarda dentro di sé, più diventa tutt’uno con l’universo […]”. Se le frasi sintetiche ed evocative del Manifesto dell’artista accompagnano il visitatore nel percorso da intraprendere per entrare nell’universo Abramović, così la mostra si presenta come un repulisti esistenziale di quasi mezzo secolo di lavoro, per accedere al quale è necessario essere pronti ad assorbire ciò che si guarda e ciò a cui si assiste senza giudicare, ma essendo pronti a lasciarsi coinvolgere dalle tensioni create dalle performances, perché questo è l’unico modo per capire che tipo di reazione queste provochino in noi.
Caratteristiche dell’evento sono le reperformances riprodotte dagli attori che, a rotazione, cercano di far rivivere alcune delle tappe fondamentali della produzione artistica di Marina Abramović. La rotazione è giustificata dallo sforzo necessario per portare avanti quel tipo di performance, uno sforzo che richiede una preparazione fisica e mentale senza la quale lo stress non sarebbe sopportabile.
Il percorso inizia nella “Strozzina” in cui sono esposti i dipinti di gioventù dell’artista e la Cleaning Machine a ricordo di una storia che segnò l’infanzia dell’Abramović.
La Abramović iniziò a raccontare la sua verità all’inizio degli anni Settanta con una serie di eventi dal vivo realizzati alla SKC, centro culturale di Belgrado, che da subito mostrarono la necessità dell’artista di fornire una prospettiva diversa su tematiche comuni dell’essere umano come la fragilità del corpo, la sofferenza, il dolore, la nudità e la capacità della mente di adattarsi alle situazioni più estreme.
La collezione di 72 oggetti di Rythm 0 disposta su un tavolo ci ricorda l’intenzione della performance del 1974: rendere protagonista il pubblico.
Possiamo solo immaginare l’evento e chiederci: cosa avremmo fatto con uno o più di quegli oggetti su un corpo umano messo alla mercé degli istinti? Le reazioni dei visitatori della Galleria Morra di Napoli, ad esempio, furono in un primo momento di imbarazzo. Successivamente il pubblico iniziò a toccare e a palpare l’artista, a tagliarla con una lametta. Il crescendo incontrollato di azioni mise a dura prova il suo corpo che, nonostante tutto, rimase impassibile dopo sei ore di performance.
La prima reperformance proposta in mostra è Freeing of voice. Vestita di nero, distesa su un materasso con il capo all’indietro, la performer urla fino a far andare via il fiato e, una volta recuperato, continua costantemente fino a che le corde vocali infiammate smettono di vibrare. Ci vogliono circa tre ore per perdere completamente la voce. Mentre ne bastano quasi due per perdere la memoria pronunciando ininterrottamente parole (Freeing of Memory) e sei ore per sfiancare il corpo in una serrata danza tribale con il volto coperto da un cappuccio nero (Freeing of body).
Urlare, parlare, danzare sono azioni che nella semplice quotidianità creano benessere e sulle quali non ci soffermiamo più di tanto a riflettere.
Portare il proprio corpo al limite è per l’artista un modo di guardarsi dentro e comprendere il proprio corpo, farlo davanti ad un pubblico obbliga chi guarda ad una reazione, che sia di fastidio o ilare, che generi frustrazione o indifferenza, lo scopo è sempre quello fornire un’altra prospettiva, spesso estrema e quindi efficace, in modo da “trasformare una esperienza personale in una azione trascendentale per chiunque”.
Il percorso nella Strozzina prosegue con i video e le foto, corredati da oggetti, delle performances Thomas Lips(del 1975 presentata a confronto con la reperformances del 2005 al Guggenheim di New York); Art must be beautiful, Artist must be beautifuldel 1975 e i video di Seven Easy Pieces, una serie di eventi tenutisi al Guggenheim in New York in cui la Abramović rimette in scena le storiche performances di Bruce Nauman, Vito Acconci, Valie Export, Gina Pane e Joseph Beuys.
La seconda parte dell’esibizione è dedicata al percorso artistico intrapreso insieme al compagno Ulay negli anni 1977-1988. Non poteva mancare il vecchio cellulare Citroën della polizia, con le fiancate in lamiera ondulata e il tetto alto, simbolo delle loro peregrinazioni per il mondo e della loro simbiosi artistico/sentimentale. Per accedere all’area espositiva della seconda tappa del percorso si deve letteralmente attraversare la reperformance di Imponderabilia.
L’iconica performance del 1977, realizzata presso la Galleria d’Arte Moderna a Bologna si concluse con l’irruzione della polizia intervenuta per interrompere l’evento per oltraggio al pubblico pudore. “Imponderabile. Fattori umani imponderabili come la sensibilità estetica. La soverchiante importanza degli imponderabili determina il comportamento umano”.
La porta è ostruita da due persone completamente nude e immobili una di fronte all’altra sotto gli stipiti dell’accesso. Per passare si è costretti a strusciare sui corpi e a scegliere se rivolgere lo sguardo verso il maschile o il femminile. (Nel caso della reperformance erano presenti due uomini)
Lo spettatore non solo è coinvolto fisicamente, ma deve fare conti con la nudità altrui, con il modo di percepirla, con il proprio personale senso del pudore. Nel fare questo si ha il ribaltamento del senso di nudità che da fisico diventa concetto mentale: a sentirsi “messo a nudo” nelle proprie debolezze e nei propri pregiudizi è colui che attraversa la nudità, non chi è veramente senza vestiti.
Nella loro relazione-collaborazione Abramović e Ulay si sentono parte della stessa entità di cui rappresentano la parte femminile e la parte maschile. Insieme sperimentano il proprio corpo, lo spazio, il tempo e la fiducia verso l’altro. In Light-Dark hanno i capelli della stessa lunghezza, sono vestiti allo stesso modo, e inginocchiati uno di fronte all’altra iniziano a schiaffeggiarsi a vicenda. Lo schiaffeggiatore, dopo aver colpito per primo deve darsi uno schiaffo sul ginocchio per far acquisire alla performance un ritmo binario. Prima lentamente e poi incrementando la velocità, al di là del significato comune dello schiaffo, il corpo viene utilizzato dai due artisti come uno strumento musicale.
In Rest Energy la Abramović reggeva un grosso arco e Ulay ne tendeva la corda, reggendo tra le dita la base di una freccia puntata verso il petto della compagna. Se Ulay avesse mollato la freccia avrebbe trafitto il cuore di Marina. Sul loro petto era attaccato un microfono in modo tale che il pubblico sentisse il battito amplificato dei loro cuori. 4 minuti e 20 secondi di pura tensione emotiva in cui Ulay aveva il potere di spezzarle il cuore.
Questo il destino prevedeva per loro. Dopo aver viaggiato negli angoli più remoti del mondo – Australia, India, Tibet – alla ricerca di una nuova spiritualità, finiscono in Cina, dove finirà esemplarmente anche la loro relazione.
Il breve video di Great Wall Walk riassume in pochi minuti 90 giorni di cammino sulla Grande Muraglia e i 12 anni di sodalizio umano dei due artisti. Partiti dagli estremi opposti della Cina, Ulay e Abramović camminano fino ad incontrarsi. Quasi una storia epica di due amanti che dopo tante sofferenze e peripezie si riuniscono. “Ma la lunga strada che ognuno di noi intraprende per incontrarsi con l’altro ha il solo scopo di porre la parola“fine”.Questo è molto più drammatico della storia di due amanti perché la realtà è che alla fine sei solo, qualunque cosa tu faccia.”
La terza ed ultima parte della mostra è introdotta dalla reperformance di Cleaning the Mirror. Il performer ha uno scheletro (finto) prima su una sedia, poi in grembo e cerca di pulirlo con una spazzola di metallo e un secchio pieno di acqua e sapone, passando per ogni insenatura delle ossa. Ma più si passa la spazzola più lo scheletro si ingrigisce poiché risciacquata nell’acqua sporca.
In questo caso l’artista si rifà al rituale tibetano del rolang, in cui i monaci vengono abituati all’idea della morte dormendo in cimiteri con cadaveri in vari stati di decomposizione.
La consapevolezza della mortalità però non basta a comprendere la schizofrenia dell’umanità. Balkan Baroque è la performance cha ha fatto conoscere la Abramović al grande pubblico. Vincitrice del Leone d’Oro alla Biennale del 1997, esprime il barocchismo e la follia della mentalità balcanica e al contempo il tentativo di creare un’immagine universale della guerra.
Per quanto l’artista si sforzi nello sfregare via la carne dalle ossa di bovino e a ripulirle dal sangue, l’odore della putrefazione rimane per sempre sul corpo e nella memoria, l’unica cosa che si può fare è accettarla, mostrarla, per fare in modo che non si ripeta mai più.
Alla sua terra di origine sono legati altri video in mostra, comeThe Hero (2001) dedicata al padre e Balkan Erotic Epic (2005) uno studio sull’erotismo nella cultura popolare balcanica.
L’equilibrio tra corpo e mente, la nuova coscienza spirituale assimilata nelle peregrinazioni per il mondo, da sempre al centro della ricerca della Abramović, assumono un valore scioccante per lo spettatore in Luminosity (1997). Nella reperformance del 2018, vietata ai visitatori più giovani, il tempo sembra non passare mai, l’intensità della luce fa accrescere lentamente il volume dello spazio, il disturbo emotivo dato dalla visione provoca il desiderio di scappare: per trenta minuti la performer, nuda, resta in equilibrio su un sellino di bicicletta, sospesa senza poter poggiare i piedi, muovendo braccia e gambe per non perdere l’equilibrio.
Il controllo del dolore, del movimento, dei gesti, del fastidio, della luce puntata in faccia, è possibile solo grazie all’estrema concentrazione della performer che, immaginiamo, avrà dovuto sottoporsi ad un allenamento costante per riuscire a portare a termine un’impresa così difficile. Si tratta d’altronde di una riflessione sull’energia che può manifestarsi in modo più o meno elevato rispetto all’intensità spirituale con cui il soggetto affronta la performance.
Meno destabilizzante emotivamente, ma non per questo meno forte nel suo messaggio, è The House with the Ocean View (2002), riprodotta dalla giovane finlandese Tiina Pauliina Lehtimäki.
Per 12 giorni l’artista soggiorna in una casa senza pareti, sospesa da terra, accessibile da scale i cui pioli sono coltelli affilati. Non parla, non legge, non scrive, può solo espletare le funzioni corporali ma non mangiare.
Condizione essenziale per l’installazione vivente è, oltre la performer, il pubblico. Ad esso si chiede di osservare in silenzio, usando i binocoli. La performance crea una energia inaspettata, data dalle condizioni e restrizioni imposte al sistema di comunicazione tra le due parti allo scopo di creare un nuovo sistema di interazione. Per percepire questa energia lo spettatore deve impegnarsi, essere pronto a regalare il proprio tempo e concentrarsi per dedicare quei minuti all’arte.
L’esplorazione di altri modi di comunicare trova il suo apice nel lavoro dell’Abramović in The Artist is present. La relazione tra artista e pubblico diventa ad personam. Nella performance newyorkese i visitatori rimasero in fila per ore per sedere di fronte alla donna vestita di rosso per il tempo desiderato. Le reazioni furono le più disparate, l’Abramović dichiarò di essere stata ricettiva al massimo delle sue possibilità e questa sua apertura verso l’altro, a prescindere dalle diverse storie, fu percepita e apprezzata dal pubblico. “Un uomo sedette davanti a me venticinque volte, la prima delle quali per sette ore”. Non si tratta del desiderio di partecipare ad un evento storico, e qualora questo sia stato l’approccio di molte persone, nel momento in cui sono sedute di fronte all’artista qualcosa di inaspettato ed autentico è venuto fuori.
A conclusione del percorso espositivo, la riproduzione dei mobili utilizzati nella performance newyorkese sono a disposizione dei visitatori che possono sedersi e osservarsi per il tempo che desiderano. Ai visitatori è data la possibilità di sperimentare la comunicazione in modo diverso, di creare un rapporto, di prendersi il proprio tempo. Che sia arte o meno non importa.
The Cleaner non è unicamente una celebrazione di un’artista già famosa. Grazie alle reperformances e al duro lavoro degli attori, si ottiene la trasformazione di un luogo di sperimentazione, un luogo in cui le persone, anche inconsapevolmente, sono protagoniste degli eventi attraverso i sentimenti che vivono, al tempo che si dedicano, a come si muovono nello spazio, a come reagiscono di fronte alla vista del dolore, della nudità, della sessualità. Tutte quelle tematiche che nel corso di mezzo secolo, un altro essere umano ha dedicato loro utilizzando il proprio corpo come strumento per raccontarci qualcosa che da più vicino, o da un po’ più lontano, ha a che fare con la nostra vita.
Luna Gubinelli