Spiritualità e follia, due visioni apparentemente discordanti eppure molto vicine. Accomunarle non vuole essere solo un esercizio storico-critico, quanto un voler dare una possibile chiave di lettura al divenire di un mondo tanto complesso quanto sfaccettato, che proprio nella lotta contro una spiritualità ormai collassata genera, forse, uno dei momenti più floridi della storia: il Rinascimento
“Sono tante le cose che dicono i mortali sul mio conto e so bene quanto sia malfamata la Follia anche tra le persone più folli; tuttavia, ecco qui la prova decisiva che io, io sola, ho il dono di rallegrare gli Dei e gli uomini.”[1]
Così, nell’Elogio della Follia, Erasmo da Rotterdam presenta la protagonista del piccolo trattato. Follia, dopo aver descritto i suoi natali, che non si debbono ricercare fra le concupiscenze di Giove, bensì in Pluto, inizia un attento esame della quotidianità, descrivendo come questa ne sia di follia pervasa. Solo gli ultimi capitoli sveleranno come il migliore esempio di follia sia proprio la fede, “forma di follia e di insensatezza”[2], legata ormai indissolubilmente alle gerarchie che la governano. Sicuramente il clima riformista giustificherebbe lo stile sprezzante con cui la follia rimprovera l’umanità, certezza del fatto che nell’epoca moderna interrogarsi su quanto giusto sia stato affidarsi alla sola fede non fosse del tutto estraneo ai contemporanei.
Hieronymus Bosch è sicuramente uno degli esempi lampanti di come Arte e Spiritualità possano coesistere in un’unica visione legata all’Umanesimo incalzante. La ricerca della spiritualità, e quindi anche della fede, trova nelle opere di Bosch la giusta risposta: il popolo. Ripartire dal popolo, con una produzione che, eliminati i ghirigori teologici, riuscisse oltre che ad insegnare anche a dialogare con il suo interlocutore.
Ripartire dal basso, con una conoscenza che manifesti l’origine popolare della spiritualità, rispolverando quindi la nozione di peccato e pena anche attraverso i proverbi tradizionali che, nella rappresentazione dei Sette peccati capitali (fig.1), eliminata quindi l’esperienza delle allegorie, chiama il popolo tutto a interpretare le miserie umane da cui fuggire.
. La raffigurazione oltre che contenere l’abbecedario catechetico in voga per molti secoli nell’Occidente cristiano, in cui al vizio è collegato la pena, traduce l’essenza di una frugale spiritualità: il terrore della pena! È importante notare con quanto estro le pene inflitte ai peccatori siano direttamente proporzionali alla gravità del peccato, esperimento già visto nella Divina Commedia che trova, però, le sue origini nel sistema commutativo dei più antichi Libri Penitenziali. Che a subire le pene sia solo il popolo minuto è certezza di un privilegio storico che, nelle tesi affisse alle valve della chiesa del castello di Wittenberg, troverà il suo più accanito oppositore, in una tensione spirituale umanamente declinata nel desiderio di sconfiggere la potestà spirituale usurpata dagli uomini.
Dal suo canto Hieronymus istiga la polemica contro un sistema oltre che corrotto, legato al denaro ed è nella raffigurazione della Nave dei folli (fig.2), che la spiritualità, in tutte le sue varianti, naufraga nella Follia erasmiana.
. Il dipinto, oggi conservato al Louvre, vede come principali attori quelli che la Chiesa chiama poveri di spirito, ma tra i folli, è curioso notare come il primo piano della rappresentazione sia occupato proprio da due esponenti delle gerarchie ecclesiastiche, intenti ad abboccare alla pagnotta che gli penzola sul capo! Eretico o no, il confine tra follia e spiritualità è forse descritto proprio dalla pagnotta, perché alla fin dei conti neanche il cane scodinzola per nulla. Alla confusione più totale della nave dei folli pur si collega l’esperimento che per secoli ha occupato le migliori menti nel rocambolesco tentativo dell’ Estrazione della pietra della follia (fig.3).
Operazione mai conclusa con successo che Bosch ci descrive accuratamente non dimenticando mai di mostrare i veri protagonisti: un monaco, una suora ed il ciarlatano, forse non a caso accomunati.
“Quanto più è perfetto l’amore, tanto più è grande e beato il delirio”[3] così la Follia descrive la felicità eterna, che insieme al terrore della pena è l’elemento fondante della spiritualità nel Cinquecento; la stessa che nel Trittico del Giardino delle Delizie (fig.4) accompagna i protagonisti della scena, Adamo ed Eva nel loro incontro, preludio al vero e proprio paradiso rappresentato nel compartimento centrale. Creature misteriose e diverse presenze zoomorfe, frutti e delizie armonicamente sistemati in una immaginifica scenografia. In uno stretto legame tra follia e libertà: fiere ammansite si lasciano cavalcare, rapaci e uccelli fanno da scivolo alle paradisiache piscine naturali e, in fondo, l’uovo, senz’altro retaggio dell’ idea generatrice che da secoli lo accompagna. Nel Giardino delle Delizie ci sono tutti gli ingredienti per la felicità, che sia puramente spirituale, alchemica o figlia di un misterioso pensiero a cui Bosch avrebbe aderito, penso sia del tutto vano chiederselo. Alla ricchezza del Giardino fa eco la miseria dello scenario infernale, dove a regnare sono le tenebre e anche gli strumenti musicali partecipano a realizzare la mattanza. L’horror vacui, di cui spesso si taccia Hieronymus Bosch, non sarebbe allora da ricercare nella meticolosa raffigurazione alla gotica, quanto nel vero e proprio suo spiritualismo, per cui a far paura è il vuoto spirituale.
“Rimane l’orrore, e scompare la colpa; e, cercando un colpevole contro cui sdegnarsi a ragione, il pensiero si trova con raccapriccio condotto a esitare tra due bestemmie, che son due deliri: negar la Provvidenza, o accusarla”[4]. Queste le parole scottanti di Manzoni nella Storia della colonna infame, in cui la natura umana è chiamata a giudizio contro la sua stessa iniquità, perché non si rimandi a Dio la scelleratezza umana, perché alla fin dei conti, come cantava De Andrè :“L’inferno esiste solo / Per chi ne ha paura”.
Fabrizio Perrone
NOTE
[1] Erasmo da Rotterdam, L’elogio della Follia [Parigi 1511], a cura di Massimiliano Lacertosa, Feltrinelli Editore, Milano, 2011, p. 51
[2] Ivi, p. 262
[3] Ivi, p. 37
[4] Alessandro Manzoni, Storia della Colonna infame [Milano 1840], a cura di Lanfranco Caretti, Ugo Mursia Editore, Milano, 1973, p.25