Ugo Marano e il racconto dell’universo mediterraneo
Massimo Bignardi
Ugo Marano è stato, da uomo e da artista, ancorato al disciplinare della vita; l’ha pensata e vissuta al passato, al presente, al futuro, ma sempre, direbbe Marc Augé, con «l’irrealizzabile desiderio di ritrovare, di fermare o di inaugurare il tempo».
Lo ha fatto anche quando il suo lavoro, nell’accezione dell’esperienza formale, sembrava dichiararsi contro la modernità colpevole di aver appianato ogni insorgenza dei miti dell’origine: nel recupero delle manualità e con esse delle materie attinte dal lontano orizzonte della comunità mediterranea, in primis il ferro e la ceramica, per lui«arte maestra», potevamo scorgere nei primi anni Ottanta, quel desiderio che Ugo manifestava di riprendere il filo tripolare dell’immaginario, di posizionarlo in direzione di un sentimento ‘umanistico’ dell’uomo contemporaneo.
La sua proposta non lasciava spazi all’incertezza dell’identità o a febbrili esitazioni del pensiero: va detto che tutto ciò accadeva in un preciso momento della cultura artistica italiana e internazionale, proiettata verso il trionfo dell’apparenza, della smodata corsa ad azzerare ogni vitalità o fermento che aveva solcato i decenni immediatamente precedenti. Erano gli anni d’ingresso ad una condizione postmoderna che, nel 1979,Lyotarddefiniva come condizione di disincanto e di delegittimazione delle metanarrazioni. Affermare l’identità di un’esperienza esistenziale, liberandola dall’aneddotica e dalla scrittura di una critica sovraccarica di lirismo, fa la linea guida di questa mostra in modalità on line, promossa ed organizzata dalla rivista Sineresi di Potenza, dove un gruppo di giovani artisti, sul finire degli anni Settanta, ha condiviso con Marano– al tempo impegnato nel restauro del ciclo di mosaici del Duomo del capoluogo lucano – una esperienza unica. Lo schema sintetizza il percorso espositivo della grande mostra antologica, allestita alMuseo-FRaC di Baronissi, dal dicembre del 2014 al marzo successivo. È una traccia che, a circa dieci anni dalla scomparsa, fa leva sull’estrema semplicità dell’artista a spiazzare la nostra attenzione, sul suo parlar chiaro, frontale, senza metafore, con voce ferma ma carica di dolcezza, con gli occhi fissi a riflettere l’azzurro del cielo e del mare di Cetara ove si affaccia la sua casa.
L’opera di Marano muove sulle polarità di un binomio che traduce la sua vita e il suo habitat: il mare con esso l’acqua, simbolo e pensiero della purificazione e della rinascita che è propria del gesto dell’artista. Per Marano, scriveva Gillo Dorfles presentando il suo lavoro nell’articolo apparso sulla rivista “Area” nel 1989, si può parlare di ‘missione’, perché in effetti «è come se fosse investito di una carica di missionario laico, di profeta futurista, […] con la quale Marano svolge il suo lavoro con la convinzione di realizzare degli oggetti […] che liberino l’individuo dalla sottomissione agli schemi imposti dalla tecnocrazia dominante». Da artista, dunque, si è posto come attento osservatore della condizione dell’uomo contemporaneo, opponendo, mai in antitesi, bensì come ulteriore riflessione metodologica di derivazione umanistica, un attento recupero della tradizione guardando con essa all’ersliberalis della nostra cultura.
Una riflessione che l’artista ha tradotto nella molteplicità dei suoi interessi creativi: la scultura e il disegno che ritroviamo nell’ampio ciclo delle “elissi”, segnano la sua comparsa sulla scena espositiva nazionale, con la prima mostra allestita nelle stradine di Amalfi nel 1968, in dichiarato confronto con le proposte avanzate da Celant, negli stessi giornicon la mostra “Arte povera+azioni povere”, negli Arsenali e nelle strade della città regina della Costiera amalfitana. Poi quelle tenute a Roma nel 1972 e nel 1974, vale a dire quando la sua esperienza, partita a metà del decennio Sessanta dallo studio e dalla ricerca ‘pittorica’ del mosaico, muoveva verso una dimensione spaziale propria della scultura. Sarà poi la ceramica a catturare, già dai primissimi anni Settanta, il suo interesse. L’idea della fabbrica-bottega, laboratorio di manualità del pensiero, ma anche del museo come fucina, come spazio per la ricerca e per la sperimentazione, è per Marano l’elemento centrale del programma di lavoro che anima il progetto Museo Vivo. È un progetto che mira a sconvolgere i ruoli del sapere, i compartimenti dell’elaborazione del pensiero, attraverso il recupero dei valori della manualità, intesa quale dettato etico e patrimonio di conoscenze.
La piccola fabbrica di Matteo Rispoli a Molina di Vietri sul Mare, dal 1972, diviene in breve tempo il riferimento di un progetto in progress, con il contributo di artisti quali Turcato, Petti, Carotenuto, Ballarò, Tot, ma anche di intellettuali come Menna, Sanguineti, Giordano Falzoni, il regista Mario Chiari, e, più tardi Guttuso ed Argan, che realizzeranno il loro piatto a Roma e di Stockhausen che l’artista incontrerà al Teatro San Carlo.
Il progetto Museo Vivo veniva a riproporre il tema centrale sul quale ruota il ‘verbo’ della ceramica; cioè incipit per una riconsiderazione del ‘fare’ che spinge l’artista verso l’ambito del design, come avevano documentato, all’indomani della sua morte, le opere esposte nella bella mostra parigina, allestita nel 2013 presso la GalerieMercier&Associés, disegnando un percorso espositivo che, dal decennio Sessanta, giunge al Duemila. Una stagione d’intensa creatività, nella quale sono nate opere come la Tavola dei Semplici, del 1982 che esposi in occasione della mostra “Immaginario riflesso” allestita nel 1983 agli Arsenali di Amalfi, la Tavola “dejeunersur l’herbe”, del 1984 e l’Uccello di ferro, una lampada prodotta in multiplo da Ultima Edizione nel 1990. Inoltre i grandi piatti degli anni Ottanta a tesa larga maiolicati e dipinti; alti vasi in maiolica “rosso e nero” realizzati nel 2004, nonché gli oggetti del suo inconfondibile stile, quali La sedia del mal di prurito, del 1981, Oh, il mobile dell’acqua alta, in mosaico, foglie d’oro e ferro del 1982.
Nella sua poetica di artista ‘utopico’ trova posto l’interesse per una “nuova urbanistica”, cioè la necessità di mutare atteggiamento rispetto all’istigazione alla discordia, propria delle città moderne: significa, cioè, restituire ad esse, il ruolo di luogo di nascita, di ciò «che chiamiamo libertà civica – affermava Mitscherlich–, di quel sentimento della vita che si oppone alle cupe forze del dominio».
Il Monte Cervati, al centro del Cilento, ha accolto, oltre venti anni fa, un progetto di sperimentazione sui temi della tutela e della salvaguardia dell’ambiente. In quella occasione l’artista ci ha invitato a riportare le attività dell’uomo sul monte più alto della Campania, dal quale si domina la tavola blu del Mediterraneo mitico, aprendo un nuovo varco al dibattito del rapporto Uomo-Natura. Sui quaranta troni lignei che realizzavano il Coro dei Flauti, Ugo aveva posto, i pensieri di una città della vita, dei
desideri, quale misura di un concorso comune d’energie.
Un segnale di poetica che diviene “nuova economia”, disegno per lo sviluppo creativo delle aree interne: è una proposta coraggiosa che mira a dare all’utopia, affermava l’artista, il valore di progetto morale che si realizza
Ugo Marano, and a story of the Mediterranean universe.
Massimo Bignardi
As man and artist, Ugo Marano hasbeensteeped in the discipline of life; he hasimagined and lived in the past, present and future, yetalways, according to Marc Augé, with ‘the impossible dream of greeting a new age’.
He even did this whenhis work, in the sense of formalpractice, seemed to declareitselfagainst a modernityguilty of havingsquashedanysubversionlingering in the myths of antiquity: restoring the values of handcraft with the arcs of materialsdrawn from far and wideacross the ancient span of Mediterraneanhorizons; starting with iron and ceramics, for the ‘art master’ himself, whom we couldglimpse in the earlyeighties, with that longingwhich Ugo manefested to take back the threepoint file of the imagination, and to align it with a humanistempathy for mankindtoday.
Hispropositionleaves no room for unsureness of identity or the agonies of intellectualdoubt: it goeswithoutsaying that everything that happened at a particularmoment of Italian and internationalartistic culture, projectedtowards the triumph of aesthetics — of the radical way to eliminate anyvitality or brewingrevolution, that had made its mark in the decadesimmediatelypreceding. Theywere the years of entry to the postmodernconditionwhich, in 1979, Lyotarddefinedas a condition of the disenchantment and delegitimization of the metanarrative. Affirmation of the identity of an existentialexperience, and itsliberation from anecdote and from critics’ gushingcommentary, defines the essence of this cyber show, promoted and curated by the Sineresi review of Potenza, where, in the late seventies, a group of youngartists shared a uniqueexperience with Marano — thenbusy with the restoration of the mosaiccircle in the cathedral of the Lucanian state capital. The approachcaptured the essence of the expository style of the grand anthological show, held at Museo FRaC di Baronissi, from December 2014 to the following March. It is a tracewhich, around 10 yearsafterhispassing, lays bare the artist’s extreme simplicity, that transfixes us with hisstarkdirectness, metaphor-free, in a voice at once firmyetinfused with sweetness, hiseyes set to reflect the blue of the Cetaransky and sea, overlookinghis house.
The work of Marano spans the spectrum of a duality that relayshislife and environment: the sea with the water itself, symbol and notion of hisown, baptisedrebirth in artisticexpression. In Marano’s case, according to GilloDorfles, on introducinghis work in a 1989 Area review, one can talk of the ‘mission’, because, in effect, ‘it is as if it wereinvested with the charge of a secularmissionary, of a future prophet, [ … ] from which Marano developedhis work with the conviction of realisation of objects [ … ] which free the individual from submission to the plansimposed by the dominanttechnocracy’. Through the artist, therefore, it assumes the rôle of attentiveobserver of mankind’s present condition, opposing — neverasantithesis, butratheras an ulteriorreflection of humanism-bornemethodology — a recoveringawareness of the watchingtradition of our liberal culture itself.
This is a reflectionwhich the artist hastranslatedinto a multiplicity of his creative interests: the sculpture and drawing, which we find again in the grand circle of the ‘elissi’. Theymarkedhisappearance on the national art scene, with the first show prepared on the streets of Amalfi in 1968, in directcollaboration with the proposalsadvanced from Celant, and in the sameperiodas the show ‘Arte povera+azioni povere’, amid the guns and the streets of the city that wasqueen of the Amalfi coast. It is possiblethoseshowsheld in Rome in 1972 and 1974 — notablywhenhispracticesplitinto two, derivingboth from the studio, and from visual research of the mosaic — were part of a movementtowards a spatialdimensionpeculiar to sculpture. Ceramicswould continue to holdhisinterest, from thoseearlyseventiesonwards. The idea of a workshop — a laboratory for the craft of thought, and also a museumas forge and space for research and experimentation — is, for Marano, the key element of a programme of work whichsparks the Live Museum project. It is a project that seeks to subvert the rôles of knowing and the strands of thought-elaboration, in the course of restoring the value of craft, with accordasstipulatedethical code and the asset of consciousness.
Matteo Rispoli’s and Molina di Vietri’slittlefactory, from 1972, quicklybecomes the basis of a work-in-progress, with contributions from artistssuchasTurcato, Petti, Carotenuto, Ballarò and Tot, as well asintellectuals like Menna, Sanguineti, Giordano Falzoni, the director Mario Chiari, not to mention Gattuso and Argan, who willrealisetheirpiece in Rome, together with Stockhausen, who the artist willmeet at the San Carlo Theatre.
The Live Museum project exists to re-propose the core theme, whichcentres on the word ‘ceramics’: beginningagain, for a re-envisaging of the ‘making’ process, whichnudges the artist towards the purpose of design, asdocumented the day afterhisdeath, with worksshown in the beautifulexhibition hall, prepared in 2013 courtesy of GalerieMercier&Associés with a mode of exhibition that first came to Duemila in the sixties: a period of intense creativity, and the birth of workssuchas the Tavola dei Semplici from 1982, showing the ‘ReflectiveImagination’, and exhibited in 1983 for the Arsenali di Amalfi; la Tavola ‘dejeunersurl’herbe’, or ‘lunch on grass’, from 1984 — and the ‘Uccello di Ferro’, a lampmass-produced by Ultimate Edition in 1990. And there is yet more, with the extravagantlybrimmedplates of the eighties, in their decorative paintedearthenware; novel, ‘red and black’ maiolica vases, made in 2004, and various objects in hissingular style, suchas the ‘Seat of the Pain of the Itch’, from 1981, or the ‘Deep Water Mobile’, in mosaic, iron- and gold-leaf, from 1982.
In his utopian artist’s poetry, he finds a point of interest for a ‘new urbanistic’; namely the need to evolve, in the context of the engendering of discord in the soul of the modern city. It signifies the restitution of being, and the rôle of the birthplace: in Mitscherlich’s words, this ‘which we call civic freedom’ … ‘from which the sentiment of life opposes the dark forces of dominion’. Mount Cervati, at the heart of Cilento, hosted — over twenty years ago — an experimental project on his themes of tutelage and conservation. On that occasion, the artist commissioned a report on human activity in mountains higher than those of Campania, once home to the ‘Blue Table’ of Mediterranean myth, in order to chart a new course as regards the balance between man and nature. On his forty wooden thrones, which released the ‘Choir of Flutes’, Ugo had placed thoughts of a city of life, of desires, which will come together in a convergence of common energy.
A herald of the poetry, which is becoming the new economy, is design for the creative development of the interior. In the words of the artist, it is a bold proposal, which strives for utopia: for the ethical values of the project, which now come to be.
Transaltion edited by Jonathan Graham
Ugo Marano nasce a Capriglia di Pellezzano (Sa) nel 1943 e da sempre risiede a Cetara. Frequenta l’Accademia del Disegno presso la Reverenda Fabbrica di San Pietro nella Città del Vaticano a Roma e l’Accademia del Mosaico di Ravenna.
Sin dagli anni di formazione la sua ricerca tende allo stravolgimento radicale del linguaggio per cercare di sviluppare un nuovo codice di lettura del reale e il piatto di terracotta diviene mezzo per una comunicazione collettiva e osmosi sociale. Seguendo la sua idea radical-concettuale nel 1971 crea il progetto “Museo Vivo” facendo nascere, in un piccolo parco nascosto tra gli alberi, un opificio della ceramica basato su una architettura “esistenziale”, luogo che deve essere ricco di “radicalità positiva”. Nell’ambito di questo progetto nasce il sodalizio con Stockhausen, una collaborazione che produce alcune opere notevoli. Nel 1975 è invitato ad esporre alla Quadriennale di Roma e alla Biennale di Venezia nel 1976.
Nel 1977 viene chiamato a progettare ed eseguire personalmente il restauro dei mosaici del Duomo di Amalfi, della cripta di epoca romana del Duomo di Potenza e del Duomo di Salerno.
Nel 1979 espone alla Triennale di Milano, dove nel 1980 tiene anche una conferenza. Nel 1980 è di nuovo alla Biennale di Venezia (“Il tempo del museo”).
In questi anni nasce il progetto la “Fabbrica Felice”, nel quale studia lo spazio di esistenza dell’uomo nuovo, l’uomo di natura. L’uomo trova nell’interazione con l’oggetto d’arte un rapporto profondo ed inconscio che lo motiva e lo sostiene nella vita quotidiana. Nel 1982 espone al Centre Pompidou di Parigi il suo “Manifeste du livre d’Artiste” e nello stesso anno realizza il primo “antimonumento” in Italia, a Salerno, per i martiri del terrorismo. Nel 1990 espone alla Triennale di Milano e al Groninger Museum in Olanda, dove gli viene riservata una sala personale.
Nel 1991 è alla XVIII Triennale di Milano. Nello stesso anno crea un’associazione di vasai che chiamerà “Vasai di Cetara” con lo scopo di svolgere un lavoro creativo libero da preclusioni accademiche o da schemi dogmatici. Nel 1995 espone a Parigi al Carrousel du Louvre. Nel 1996 progetta e realizza due utopie: la Fontana Felice a Salerno e il Museo Città Creativa a Rufoli. Nel 1997 elabora con l’economista Pasquale Persico progetti per la risemantizzazione dei luoghi della vita dell’uomo e ne realizza alcuni presso il Parco Nazionale del Cilento e il Vallo di Diano, località che sono state dichiarate patrimonio mondiale dell’umanità, composte da cento paesi su un territorio di circa 300.000 ettari. Progetta quattro piazze sulle montagne della Campania con l’intento di unificare la regione. Nasce così il progetto della “Città Moltiplicata”. Successivamente, pienamente convinto della necessità sociale dell’arte, partecipa al Piano Strategico per l’associazione di sei comuni intorno a Copparo, in provincia di Ferrara, con progetti per un territorio di 50.000 ettari. Nasce così il Museo Fabbrica Creativa. Nel 1997 viene invitato ad esporre una personale a Napoli, nella sala Carlo X, nel Maschio Angioino. Nel 2001 seguendo le linee del suo progetto artistico realizza, a Cetara, la Fontana di Napoleone e crea una galleria d’arte contemporanea, la “Piazza della Ceramica”: si tratta di un “pensatoio” che si estende per tre vie della città, una “zona franca di meditazione” in pieno centro cittadino. Nel 2002 espone alla mostra internazionale “I Capolavori”, a Torino e viene chiamato dall’architetto Mendini a realizzare due grandi opere per la metropolitana di Napoli, presso la stazione Salvator Rosa.
Nel 2003, a 60 anni, a seguito della sua ricerca di nuovi linguaggi espressivi gli viene conferito il dottorato e la laurea honoris causa dalla Facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università di Salerno. Nel 2004, in collaborazione con il gruppo STS (Latz, con Pession e Cappato) vince il concorso internazionale per la realizzazione del Parco Dora Spina 3 a Torino e espone in Francia,
nella mostra “Mosaïque de design”. Nel 2005 partecipa a alla mostra “Mundus Vivendi”, insieme a Sottsass, Branzi, Coppola e Hosoe, realizzando un intero pavimento dipinto. La sua ricerca artistica si esprime attraverso grandi opere in ceramica, vasi alti fino a 3 metri e di soli 6 millimetri di spessore, naturalmente musicali. I “vasi del terzo millennio” hanno richiesto l’apposita costruzione di un forno da Enzo Santoriello, esperto tecnico della cottura che ha collaborato per realizzare opere “impossibili” anche con Miquel Barcelò ed Enzo Cucchi. Quest’opera viene scelta dal MIAAO, il primo museo dedicato in Italia alle arti applicate contemporanee, per la sua apertura ufficiale nel 2006, in concomitanza con la prima giornata di gare dei XX Giochi Olimpici Invernali, per una mostra personale dell’artista che viene intitolata Sette vasi per la casa sacra.
Nel 2006 partecipa alla Triennale di Milano con il “bestiario”, un pavimento in monoliti di 60×120 cm. Nel 2007 partecipa all’incontro con i poeti Lawrence Ferlighetti, Jack Hirschman, Agneta Falk e del fotografo e filmaker Chris Felver. Nel 2011 è invitato alla mostra “Lo stato dell’arte – Campania” nell’ambito del Padiglione Italiano della 54a Biennale di Venezia.
Muore nell’ottobre del 2011 lasciando un grande numero di opere e di progetti e idee ancora da realizzare.
INFO
Le mostre di Sineresi – a cura di Anna R.G. Rivelli
Ugo Marano e il racconto dell’universo mediterraneo
In collaborazione con il FRAC di Baronissi – Testo critico di Massimo Bignardi
Dal 15 novembre 2020
Ringraziamenti: Cristiana Elena Iannelli, Jonathan Graham, la Famiglia dell’Artista.