Nell’ambito del progetto Matera Capitale Europea della Cultura 2019, la Fondazione Sassi, sta proponendo un percorso di 12 finestre sull’arte contemporanea, percorso che si sviluppa durante tutto l’anno 2019 con il nome di Windows.
Sveva Angeletti si inserisce nella quinta delle 12 finestre, insieme a Claudio Di Lascio e Ruben Patella, altri due artisti proposti dalla curatela di Valerio Vitale, con la mostra Contemporary Roots.
L’artista, per il suo spazio personale, presenta un progetto site specific dal titolo “Due tonnellate e mezzo di vuoto”.
La riflessione alla base del lavoro che Sveva propone, nasce durante il sopralluogo a Matera, quando si interfaccia per la prima volta con la città e con la sua struttura geologica. Il lavoro che l’artista ha portato avanti, racconta l’idea dei pieni e dei vuoti che costituiscono la terra materana, ponendo particolare attenzione alla complementarità di queste due entità (il pieno e il vuoto), e di quanto, pur essendo opposte, la loro esistenza dipenda l’una dall’altra reciprocamente.
Sveva ha lavorato in una cava a una ventina di km da Matera per quantificare 2 tonnellate e mezzo di polvere di tufo, scavate dalla terra per determinare un vuoto; le ha così riposte in un cumulo, sottolineando il paradosso della rappresentazione di un vuoto attraverso una manifestazione materica e piena. Anche i disegni preparatori all’atto della quantificazione, riescono ad essere dei piccoli giochi di prospettive: nati dall’osservazione del modellino del cumulo di tufina, sono tratti bianchi, ma solo se vogliamo osservarli veramente, nel momento in cui ci avviciniamo, si manifestano a noi colorandosi di vero tufo. La struttura metallica che si presenta centralmente è quella che viene usata per spostare pile di blocchi di tufo, una sorta di protezione, che essendo svuotata del suo contenuto, assume tutt’altra valenza formale: una gabbia aperta e vuota, uno status quo dal quale ricominciare
Nelle altre sale della Fondazione, l’artista propone delle opere che vogliono essere delle piccole provocazioni: delle dissacranti frecciate che, come piccole scosse, mettono in discussione l’essenza dell’opera d’arte.
“How It’s Made”, è un’installazione audio costituita da due cuffie; un’audio guida in due lingue, che racconta la ricetta del pane.
Da una parte si dissacra l’idea di opera d’arte, trasformandola nella spiegazione di se stessa, attraverso la canonica audio guida mussale; dall’altra, la seconda azione dissacrante, sminuisce in modo provocatorio uno dei cardini su cui si fonda la società materana, cioè la lavorazione del pane e quindi tutto ciò che ne consegue in termini di struttura sociale, di cultura e di matriarcato, raccontando in modo più o meno televisivo alla cotto e mangiato, come procedere per fare il pane: gli ingredienti, le quantità, le temperature e le tempistiche di cottura.
“Fiuto la forma, ma sul più bello mi distraggo” è una grande fotografia di formato quadrato, che rappresenta una porzione di corpo in una dimensione innaturale, infatti la stampa di 155 x 155 cm, descrive una superficie che nella realtà è nettamente inferiore. Di qui la creazione della realtà falsata, attraverso un mezzo che è quello fotografico, che per definizione rappresenta la realtà oggettiva. In questo caso, la porzione di corpo, si trasforma diventando una texture, diventando un paesaggio, diventando colore e forma.
“Belvedere” è un’istallazione costituita da un telescopio puntato sul parco naturale della Murgia, la sua caratteristica è che la lente esterna è stata oscurata da una vernice bianca. Il movimento degli osservatori e la loro ricerca di vedere qualcosa, si rivela quindi essere il momento dell’arte: quel sentimento di confusione e di incomprensione che porta a porsi delle domande è il vero belvedere, è la manifestazione dell’arte stessa. Subito accanto, viene presentata l’opera “Niente”, una serie di moduli in vetro con su scritto il suo stesso titolo; il colore bianco della scritta, si disperde sulla parete e a primo impatto sembra che non ci sia niente, un primo impatto che ha già rivelato tutto.
Saro