E la bellezza non è un bisogno, ma un’estasi.
Non è una bocca assetata, né una mano vuota protesa,
ma piuttosto un cuore bruciante e un’anima incantata.
(Khalil Gibran)
L’ombra dell’altrove alla fine ci ha invasi. Un altrove di spazio-tempo che avevamo confinato nell’irrealtà delle fiabe, nell’irraggiungibilità della storia, nella lontananza di una umanità “diversa” si è rovesciato sulle nostre certezze di figli benedetti dal progresso, sulla sicumera di un millennio tanto vacillante quanto pieno di sé. Senza bisogno di fate cattive, di medievali allegorie, di populismi discriminatori, il mondo si è fermato come per un incantesimo, una stregoneria, un castigo divino. Stop. E poi ancora stop. Sulle cose belle e su quelle brutte, sull’amore e sulle guerre, sul sereno e sulla pioggia, su tutti i tetti del mondo sono calati gelo e silenzio. Tutto è rimasto sospeso, le Moire distratte, le stagioni indifferenti, gli uomini basiti. Tutto è diventato attesa; attesa come prospettiva, come angoscia, come speranza, come paura; attesa trepida, ansiosa, sgomenta, desiderativa, inquieta. Ma l’arte! L’arte non la si può zittire, non la si ferma. Ha la prepotenza magnifica dell’innocenza, la luce che rende limpida la visione di laconiche verità.
Quando agli inizi di marzo ho sentito Cesare Berlingeri mi ha detto : “Ho la mostra imballata”; la sua voce era blu, di quel suo blu di cui trema l’universo quando non sa decidere se vuol essere trascendente o terreno, se essere uno specchio di infinito o un bicchiere di vita di sconsiderata saggezza. Era pronta per partire per Milano quella mostra, e poi per altre mete, ma il blu Berlingeri sembrava destinato a raggrumarsi in quelle scarne parole e a soffocare insieme ai gialli distesi, ai rossi caparbi, al rigore dei bianchi. Siamo poi arrivati a giugno e ancora a telefono Cesare mi ha ripetuto come un abracadabra le stesse uguali parole: “Ho la mostra imballata”. Ma gli artisti sono visionari spesso inconsapevoli e talvolta increduli, cosicché lo spirito dell’arte li sovrasta e domina, li mette sotto scacco e impedisce loro di fare la mossa sbagliata. Una mostra , sebbene imballata, è pur sempre una mostra; e se è vero che l’arte è tale solo se incontrovertibilmente testimone della sua contemporaneità, le opere costrette così a lungo nei loro involucri sbiaditi non sono forse l’espressione più vera di questo tempo interrotto? Non sono per antonomasia “la mostra” quelle tele rimaste in bilico sul ciglio di una partenza? Non è quello studio vuoto la piazza che non ci ha più visti, la strada che non abbiamo più camminato?
Così nasce – forse unica al mondo – la mostra imballata; non un desolato ripiego, ma la parola icastica che racconta la storia. Perché la storia della pandemia è stata questa: l’equilibrio precario in una griglia che credevamo perfetta, le cicatrici di una vita serrata, la quotidianità affastellata e incessante, la musica dalle finestre per sentirsi vivi. E proprio così sono i pacchi impilati nelle scaffalature, gli sfregi lucenti di nastro adesivo, le scatole da supermarket con i banali nomi delle cose, l’urlo veemente delle forme che non si nascondono, delle colonne cadute che non smettono di essere colonne. Una narrazione perfetta che nessuna altra mostra sarebbe stata in grado di fare. Così l’arte vince sulla scacchiera della pandemia, dà scacco matto a chi credeva di averla sconfitta. E se, come dice Gibran, la bellezza è “piuttosto un cuore bruciante e un’anima incantata”, sotto l’avana sinfonia dei cartoni non hanno mai smesso di pulsare quei gialli, quei rossi, quei bianchi e quell’assoluto blu Berlingeri che nella voce di lui, ancora ignaro, definiva di certo la più sagace mostra dell’era Covid.
Anna R.G. Rivelli
Cesare Berlingeri è nato a Cittanova (RC), vive e lavora a Taurianova (RC). È artista di fama internazionale.