Postcards è una partitura sconnessa di cartoline dalla seconda metà del Novecento che prova a disinnescare il senso sacrale delle immagini identitarie dei luoghi. Grattacieli, piloni, condomini qualsiasi tra strade di paese, vialoni di periferia e palazzine conficcate in paesaggi naturali: nel dispositivo pretenzioso e logorroico della cartolina, l’immagine pare giustificare la propria sommessa presenza appellandosi all’anonimato frugale e catartico di una modernità conquistata. Ogni luogo appare orgogliosamente irriconoscibile, ogni cartolina appare mossa dal gusto del paradosso.
Quella della cartolina è la categoria merceologica che per eccellenza illustra le prerogative di un’immagine come dispositivo: al suo interno la struttura della composizione, la scelta del soggetto e ogni aspetto della sua resa sono dettate dalla precisa aderenza del fotografo a un’aspettativa di mercato, e quindi alla necessità dell’immagine di funzionare. Imperativo minimo della cartolina è sì di vendere, ma soprattutto di realizzare la precondizione necessaria per giustificare la propria serialità, ossia essere rappresentativa, essere riconosciuta come degna testimone di un senso di appartenenza e di una volontà di mostrarsi al proprio meglio presso occhi lontani per nome di un numero quanto più vasto di individui. È la sua pretesa di collettività, di incarnazione di valori stabili e condivisi, quindi, che la rende spesso rappresentativa oltre le proprie stesse intenzioni.
Ci troviamo di fronte al prototipo di un’immagine che è calata funzionalmente in un dato contesto. Un contesto che è possibile far emergere a ritroso nella sua chiarezza strutturale e nei suoi aspetti anche più impliciti, invisibili, elusi o deliberatamente occultati. Nella serie Postcards la ricorsività e la sovrabbondanza di un dato rendono un’informazione – che sulle prime può apparire accessoria, accidentale, trascurabile – inaspettatamente potente, al punto da chiedere urgentemente un’inedita attenzione: tutte le cartoline raccolte nella serie provano in ogni modo a dimostrare che ciascuna delle città e dei borghi ritratti fosse capace di uno sforzo di modernità, talvolta anche di prove muscolari come la costruzione di un banale condominio di quattordici piani nella prospettiva di una strada di paese. Se ognuna di queste cartoline presa singolarmente apparirebbe agli occhi contemporanei affamati di autenticità un paradosso inspiegabile, una mole di oltre 120 esemplari comunica un dato di sistematicità inaspettata: è esistito un orgoglio per la rappresentazione di una modernità conformante e del tutto uniformante che ai nostri occhi appare un’assurdità degna di un romanzo distopico degli anni ’70.
Ma non bisogna essere tentati dalla facilità con cui è possibile bollare un sentimento tale – che è andato in obsolescenza e che pure ci è tanto radicalmente appartenuto – come un errore di prospettiva a cui il tempo ha trovato un rimedio nell’oblio: nel nostro ritrovato senso del grottesco per quei panorami è celata anche l’incapacità di fronteggiare la nostra inadeguatezza per quello slancio ideale e massimalista che fa apparire questi scenari come sghembi epigoni delle architectures revolutionnaires di Boullée, Ledoux o Leroy. Se era possibile essere orgogliosi di ciò che oggi a noi appare ordinario e mediocre, è perché in quella visione c’era un progetto di umanità che, seppur fallito, era capace di un ardimento e di una volontà di modificare il reale al cui confronto anche la nostra pulsione all’autentico, all’originario e al locale appare angustamente conformistica.
Postcards è un’operazione più che un’opera: si tratta del processo aperto di riemersione di un dato. Può configurarsi nella forma di un’installazione, di un album o di un atlante, ma riserva il proprio valore artistico nell’intenzione di una rilettura, di una riemersione, di una conquista di coscienza nuova su un fattore della nostra cognizione caduto nell’invisibilità. È un processo, quindi, che non produce immagini, ma produce immaginari, trovando nuove strutture di senso in infosfere residuali, trascurate, prive di valore artistico.
Alcuni studi volti a destrutturare le estetiche della fotografia, da Vilém Flusser a Franco Vaccari, evidenziano come ogni immagine partecipi all’esaurimento di un programma del fotografabile, quindi all’emersione di una coscienza collettiva. In quanto precipitato di un sapere tecnico, testuale, scientifico, la fotografia è sempre in sé un codice linguistico che presuppone una programmazione, che sottende strutture e che predispone un numero virtualmente finito di soluzioni. A partire da considerazioni di questo tipo si muovono per esempio i percorsi metalinguistici di Mario Cresci, di Ugo Mulas o dello stesso Vaccari, tutti a vario titolo impegnati sul fronte della degradazione di quel sentimento di cieca fiducia che riponiamo nelle immagini. Tutti a vario titolo hacker del codice della fotografia, fiaccano con la loro opera l’idea che un’immagine possa essere testimone di verità evidenti senza compiere analisi. Fanno immediatamente apparire inconsistente quel sentimento di nostalgia e commozione che in quanto umani riponiamo nel perdurare in immagine delle sembianze di qualcosa che scompare, e interpongono una distanza linguistica tra l’immagine e il proprio referente anche – e a maggior ragione – a scapito di una toccante somiglianza.
Pur sembrando a un primo sguardo un processo capace di spietata razionalità, che sembra pretendere di distruggere ogni ombra di sentimentalismo nella piena luce di una superiorità amorale delle analisi sistemiche, non è priva di un sottile senso di ateo misticismo: nella possibilità di intravedere infinite possibilità di lettura trasversale anche nella compilazione di un codice, si annida una residua fiducia nelle facoltà immaginative dell’umano, solo tradotte in un mondo illeggibile se non attraverso mute stringhe numeriche.
La produzione di un’immagine è sempre, per certi versi, un’involontaria assunzione di posizione nei confronti della storia. Essendo un momento di formalizzazione, la produzione di un’immagine richiede al proprio autore la creazione di una drammaturgia, ossia l’assunzione di un punto di vista sulle cose e la supposizione di un punto di vista per chi ne sarà spettatore. È una condizione necessaria qualsiasi sia la forma che quell’autorialità e quella spettatorialità potranno assumere: dall’apotropaicità di un graffito primitivo all’immaterialità semantica di un’azione d’arte relazionale, ogni scena ha la necessità di configurarsi come evento, di testimoniarsi come qualcosa che accade e che in un dato momento possiamo riconoscere come disgiunta dal fluire comune delle cose. Ogni immagine assume in sé la necessità del proprio “funzionamento”, ossia la sua esistenza è determinata dall’attualizzazione delle sue precondizioni (delle causalità) e dalla concretizzazione di un’intenzione (delle finalità) verso il raggiungimento di quello status di accadimento notevole. Anche in via implicita, ogni immagine quindi assolve uno scopo e risponde a una pulsione. È, in definitiva, un dispositivo, un’entità introdotta nel mondo perché possa mutarne le condizioni intervenendo sugli immaginari che quel mondo l’hanno generato al livello delle percezioni condivisibili.
Guardando un’immagine potremmo quindi avere indiretto accesso a una molteplicità di dati che il dispositivo rende implicitamente evidenti: attraverso la necessità di calarsi in un sistema per funzionare, di quel sistema l’immagine più o meno implicitamente interpreta e rivela la struttura.
In questa pulsione si consuma il vero rapporto di un’immagine con il reale, con ciò che è comune. Non si tratta di un rapporto di riconoscimento biunivoco, di un fatto di mera rappresentazione, ossia della ricerca di una frontalità per quanto mediata con ciò che è supposto essere vero, ma di un processo che prevede una negoziazione, una selezione, un’esclusione. Se una qualsiasi immagine, anche la più innocente, in via del tutto ipotetica potesse fare a meno di imbastire questo conflitto, non potrebbe che precipitare nell’identità con il proprio referente, coincidere con la realtà di fronte alla quale si è posta, e annullare la consistenza dell’accadimento. Ma in un’epoca che ha fiaccato oltremodo il concetto di reale, dichiarare l’intenzione di riproporne un omologo più o meno fedele è un processo quantomeno degno di sospetto.
Ogni immagine non può fare a meno di essere a suo modo politica a seconda di come interpreterà l’impossibilità di questa planarità con la sfera del luogo del comune, e di come interverrà su di esso tramite dichiarazioni e ostensioni, o tramite lapsus e omissioni: maggiore sarà la sua dichiarata e pretesa aderenza al reale, più alto sarà l’artificio, la mistificazione, la sofisticazione di quel conflitto impossibile da scongiurare. O, in assenza di adeguati strumenti retorici, maggiore sarà l’irrilevanza di quell’accadimento mancante.
È interessante quindi concepire il negativo della storia delle immagini. Oppure, più radicalmente, si potrebbe concepire la vera presenza di un evento visivo in ciò che nell’immagine si nega. Ciò che accade in un immagine si rintanerebbe nella negazione di quella pretesa della rivelazione che nell’intuizione comune si attribuisce al momento della sua comparsa nel mondo delle cose comuni.
L’atto fondativo stesso dell’arte occidentale si consuma in una finzione assunta come rivelazione: la Veronica, la vera-icon, attraverso un processo che esclude la fallacia dell’intervento umano, fa in modo che l’immagine acheropita si inserisca nel mondo come fatto reale e non di immaginazione. Così il volto di Cristo compare sul telo della pia donna non come un questionabile ritratto giostrato sulla somiglianza, né come un timbro o una fotografia; non come la traccia di un passaggio o un’orma, e nemmeno come la vaga turbolenza di un corpo che passa nel fluido della nostra compresenza. Il volto di Cristo si riproduce producendosi come fatto originario, in modo tale che, parafrasando il semiologo Charles Sanders Peirce, non dovrebbe descriversi come un simbolo o un indice, ma come un’icona: pur non configurandosi come un fatto di identità (Cristo non può essere un pezzo di stoffa), la mediazione tra immagine e referente non è né di tipo astratto-culturale (simbolo), né di tipo concreto-fisico (indice). L’immagine, invece, sta esattamente per il proprio referente, imbastendo un attentato al processo stesso della significazione dei segni, alla finzione che è alla base di qualsiasi processo artistico.
Da questo si deduce il complesso rituale e la complessa iconografia alla base della produzione di un’icona nella cultura ortodossa (un dispositivo per la preghiera, per il contatto col divino). Da questo evento si deduce la facoltà tutta cristiana, tra le culture monoteiste, di produrre l’immagine di Dio. Da questa facoltà si deduce, di conseguenza, una pretesa di autenticità, un’aspettativa di verità, una predisposizione a vedere una rivelazione nella comparsa di un’immagine.
Paul Virilio costatava che l’invenzione dell’aereo comporta naturalmente l’invenzione dell’incidente aereo. Allo stesso modo, quella disarmante disposizione a credere che è indotta dall’invenzione dell’immagine come dispositivo di verità comporta la minaccia di una anestetizzante deriva. Come accade per esempio nei tanti episodi in cui, ai vacillamenti del dubbio nelle platee, soggetti egotici propongono strumentalmente soluzioni semplici e definitive, letture chiare e magicamente collimanti, per un mondo che invece è irrimediabilmente ridotto in frantumi.
Occorre forse una nuova prospettiva sugli immaginari che abbiamo ereditato, un atto di insubordinazione al paradigma evolutivo e incrementale della storia delle immagini. Anche in consonanza con lo spirito dei tempi che abitiamo, il cui unico slancio è nella rinegoziazione delle grandi narrazioni, a partire da quella umanista che vorrebbe l’uomo al centro degli ecosistemi, e quindi al centro dei sistemi di senso.
La contemporaneità, nel suo esercizio corrente, mostra un’enorme fatica a trovare le proprie immagini totem – e questo non sarebbe un male se non continuassimo a ingannarci di averne trovate – pur essendo il frangente che, in un paio di decenni, ha avuto modo di produrne più di quante ne siano comparse nell’intera storia pregressa.
Le immagini come momento di coscienza dicono sempre molto più di quanto una data epoca vorrebbe rappresentare di sé. Il Sacco di Roma (1527) ha significato la fine di una gerarchia ordinatrice delle immagini in Occidente, con la perdita della centralità assoluta da parte del cattolicesimo romano e la nascita della straordinaria stagione antinaturalista del Manierismo. L’Ottocento, secolo di enormi stravolgimenti cui la coscienza non è sempre riuscita a porre rimedio, attraverso le pretese sempre più invasive della borghesia rampante ha demolito il senso di aulico dell’arte per fare della storia delle immagini un repertorio di “stili” da utilizzare alla bisogna, mostrando così l’enorme disagio cognitivo che si cova nell’idea di un progresso indefinito che ignora la finitezza della biologia umana e naturale. Il movimento Dada ha provato a rifondare il mondo un attimo prima della catastrofe su basi semantiche e antigerarchiche, in una sorta di nichilismo biblico che traspone il conflitto nel livello dell’elaborazione del verbo, l’azione nella dichiarazione, l’etica nel linguaggio. La stagione del Postmodernismo, attraverso l’ideologizzazione di un processo che fosse per reazione anti-sistematico nella generazione delle immagini, ha provato a sistematizzare un nuovo approccio all’arte, in un impasto tra atavico, totem culturali, avversione al paradigma del progresso ed esaltazione degli apparati mistici e simbolici, celebrando l’insensatezza dell’avanguardia, della propulsione, del movimento, ma talvolta non riuscendo a fare a meno dei suoi rituali e dei suoi schemi.
Ogni momento di crisi ha avuto le proprie strategie di elaborazione attraverso le immagini, che costituiscono il terreno di esercitazione per ripristinare immaginari sbigottiti di fronte a contesti imponderabili. Si tratta di un lavoro ineludibile, assimilabile a posteriori a quello che la letteratura svolge nelle età della formazione, quando, come dice Miguel Benasayag, ci fornisce di mappe sentimentali e relazionali da adoperare nei momenti di crisi della vita venire. La nostra epoca, invece, appare bloccata in un’alchemica sinergia tra arte e finanza: una finanza che sostituisce all’esercizio di una coscienza artistica più o meno ampia, corale, condivisa, la necessità di una pratica costante e inoffensiva dell’arte come attività produttiva altrimenti non tollerabile, altrimenti non socialmente accettabile, che si tratti di elaborazione del contemporaneo o di tutela e “valorizzazione” del patrimonio culturale ereditato. Astraendo i fattori dell’economia, la finanza può riempire di valore arbitrario il simbolo vuoto del denaro, e nulla meglio dell’opera d’arte può contenere un valore economico quantitativamente opinabile da regolare in base a parametri speculativi che nulla hanno a che fare con il ruolo sociale che l’arte è deputata a compiere sugli immaginari.
La contemporaneità è sostanzialmente mutilata di uno strumento fondamentale per ragionare su se stessa. Pur esistendo esperienze alternative o esperienze di valore capaci anche di raggiungere il successo, è il contesto della riflessione collettiva a essere irrimediabilmente alterato, guidato da scale di valore pervasive e semplicemente incompatibili a trattenere nelle proprie maglie ciò che di socialmente imprescindibile si richiede all’arte di fare. Lì dove anche non imponesse l’opera o non censurasse l’improduttivo, distorce e inquina i criteri del giudizio del panorama generale.
In questo contesto trova il suo senso la reazione di un’arte “negativa”, che rimugina sulle immagini della storia anche recente, su frammenti di storie rinvenute, su materiali di risulta degli immaginari per invertire la linea evolutiva dell’arte ufficiale che coincide con la linea di incremento cui devono obbedire la tecnica e i capitali. Non si tratta di negare la produzione di opere d’arte, perché in sé quest’azione ha la facoltà di costruire un inaspettato valore artistico in ciò che artisticamente non esiste pur esistendo. Pur non producendo “tecnicamente” immagini, quest’azione negativa produce senso nelle immagini, riportandole alla luce la non-innocenza dei dispositivi, riportandole alla pericolosità di quei congegni dell’arte che influiscono attivamente negli equilibri cognitivi collettivi di un’epoca.
Si tratta di un filone già popolato di interessanti episodi che rimodulano continuamente i confini dell’artistico, e che, pur tangenti al concetto del ready made, conducono l’oggetto del proprio interesse fuori da una sacralità puramente linguistica. Più che un prelievo alla Duchamp, è un prelievo alla Kounellis: il nuovo contesto non azzera la storia pregressa dell’oggetto, ma la esalta e ne fa il tono stesso della nuova entità artistica, esponendo la propria materia a un processo di riconsiderazione collettiva attivo e spietato, in cui ogni valore può essere ridiscusso e ogni storia può essere riscritta.
Più che di ricerca, si tratta di costatazione, tanto alcune esperienze sono dettate dalla lampanza di un dubbio e non dal tentativo di trovare una verità episodica. Si nutre spesso di una passione per l’archivio come opera (e del fare artistico come concezione dell’archivio) che discende da Aby Warburg per prendere poi direzioni e connotazioni contemporanee curiosamente corrosive ed eloquenti. Manifestazioni se ne trovano in nuce sparse in tutto il Novecento, ma è a cavallo tra XX e XI secolo che il fenomeno esplode con concisione, convinzione e capacità di coercizione alla rimodulazione del senso dei nostri immaginari più decantati.
Penso alle prospettive aperte dal lavoro dei coniugi Bernd e Hilla Becher. Per esempio con la scuola di Düsseldorf e con Thomas Ruff: Zeitungsfotos è una serie sostanziata dall’archiviazione e dalla riproduzione di immagini reperite dai quotidiani, interesse condiviso col pittore Gerhard Richter, anch’egli impegnato in un’operazione simile dal titolo Zeitungsfotos; Jpeg è invece un colossale lavoro che Ruff conduce a partire dagli artefatti delle immagini immagazzinate sul più grande archivio del mondo che è Internet, disgregando in maglie fumose di pixel interpolati anche le immagini più drammatiche e “monumentali” del secolo. Con la ricorsività delle immagini nelle pratiche fotografiche e giornalistiche lavora anche Peter Piller, per esempio con la serieVon Erde schöner, in cui censisce in sistemi quelle fotografie che vengono scattate dall’alto, in serie, alle case di sconosciuti per poi essere vendute ai loro orgogliosi proprietari, o con Zeitung, in cui raccoglie e raggruppa foto straordinariamente ricorsive tra le pagine dei quotidiani, come, per esempio, quella in cui esseri umani guardano per disparate ragioni in un buco nel suolo Più vicino al lavoro dei Becher, ma in un’inedita dimensione, è Geographical Analogies di Cyprien Gaillard, un lavoro tanto di codice quanto di poesia in cui alcune strutture ricorsive, lapsus visivi e déjà vu vengono ricomposti in matrici romboidali di nove polaroid esposte in teche.
Joachim Schmid rende il gioco ancora più esplicito e sottile: al motto «Nessuna nuova fotografia finché non siano state utilizzate quelle già esistenti!» propone un programma sistematico di risemantizzazione della mole di immagini gettate nell’infosfera ogni giorno, senza, talvolta, alcun intervento se non l’antologizzazione. Juan Fontcuberta, con i Googlegrams, tra infinito e infinitesimo costituisce monumentali mosaici di minuscole immagini ricavate dai sistemi di indicizzazione di Internet, facendo apparire nella loro giustapposizione alcune icone fotografiche dal potere disturbante (l’attacco alle Torri Gemelle, le torture nel carcere di Abu Ghraib…). Corinne Vionnet con Photo Opportities rimarca la ricorrenza ossessiva di alcune prospettive nella fotografia turistica di massa: sovrapponendo le migliaia di fotografie pressoché coincidenti dei più stereotipati totem del turismo mondiale, produce delle loro rappresentazioni vibranti e fumose, non prive di inquietudine, che negano sottilmente il loro potere identitario. Erik Kessels ammassa invece abnormi quantità di fotografie in dune di stampe che si articolano negli spazi museali: 24 hours in photos gioca sulla rivelazione del dato della nostra bulimia immaginifera svelandone in sottotraccia l’inconsistenza. Adrien Missika vandalizza invece le intenzioni poetiche della categoria merceologica del tramonto in cartolina esponendo con All Sunset Postcards Available in Hawaii tutti gli esemplari trovati di un genere come quello del tramonto in un display crudelmente spoetizzante come l’espositore girevole del negozio di souvenir.
Linda Fregni Nagler conThe hidden mother ci impone di riconsiderare nella sua valenza sociale e simbolica una pratica “innocua” e diffusa della fotografia tra il 1840 e il 1920: una collezione di 997 fotografie (dagherrotipi, ambrotipi, ferrotipi…) in cui il volto della madre è celato in favore dell’esposizione di un nuovo nato. Tutte insieme in lunghe teche, riorganizzano gli immaginari e le prospettive più di qualsiasi immagine progettata a scopo strategicamente “comunicativo” possa ambire di fare. Questa tensione alla ricerca delle strutture disturbanti nell’etica e nell’estetica borghese si ritrovano anche nelle antologie di Federico Lupo, che spesso recuperano immagini da manuali di istruzioni e codici morali volti a misurare, tassonomizzare e normalizzare le vibrazioni dell’umano più sottilmente divergenti. Lo stesso spirito si ritrova nei lavori del collettivo canecapovolto, che tra modalità dada e costruttiviste, con ampio uso di found footage e collage, riorganizza e devia le visioni borghesi e securitarie del mondo per riportarle a una inquietante eloquenza oppressiva.
Tra i pionieri di questo atteggiamento rimuginante di riorganizzazione e attacco alle strutture degli immaginari possiamo collocare per esempio il ceco Jiří Kolář, che destruttura, seziona, ripiega e ricompone icone dell’arte in inedite configurazioni incastrate tra l’ironico e il grottesco. Oppure il già citato Mario Cresci, monumento della riflessione sull’immagine contemporanea che, per esempio, con Baudelaire ripropone una serie di riproduzioni del celebre ritratto fotografico che Nadar fece del poeta, riconfigurandolo ogni volta con delle pieghe diverse del supporto che trasfigurano l’icona. Ma l’azione che ha inconsapevolmente avviato una modalità dell’immagine sostanzialmente inedita è forse quella di Giulio Paolini, che fotocopiando una riproduzione del Giovane di Lorenzo Lotto, nel 1967, produce l’opera Giovane che guarda Lorenzo Lotto. Un gesto semplice che è stato capace di descrivere fulmineamente l’intera parabola introiettiva degli immaginari alle soglie del XXI secolo.
Biografia dell’autore
Donato Faruolo nato a Potenza nel 1985. È artista e graphic designer per l’arte, il teatro e il cinema. Diplomato all’Accademia di belle arti di Palermo, specializzato in Comunicazioni visive all’Università Iuav di Venezia, master in Relational design (Abadir, Catania), laboratorio di alta formazione in Design per i beni artistici e culturali (Università della Calabria).
È membro dell’associazione che dal 2011 produce a Palermo il Sicilia Queer filmfest. Membro della commissione Visual design per Adi Design Index (2016 – 2021). Primo premio Sicilia felicissima per la comunicazione visiva (2017). Docente di Graphic design all’Accademia di belle arti di Palermo.
Si occupa di immagini e fenomeni visivi come rivelatori di ansie, fallimenti e irresolutezze nella definizione dello statuto culturale di un’epoca. L’ostensione dell’immagine, l’archivio, il tazebao, l’icona, il volume, l’antologia sono tra i principali strumenti attraverso i quali indaga il funzionamento delle immagini come dispositivi efficienti.
Tra le mostre: le personali Paper (2013), Pictures/Preview (2015), Un’indagine (2016); la project room Appendix (2009); le collettive Arrivi e Partenze – Italia (Ancona 2008), Mediterranean Design (Instanbul 2009). Per la grafica: Sicilia felicissima (Catania 2017), Fahrenheit 39. Rassegna dell’editoria indipendente (Ravenna 2015), Millennials Aiap. La nuova scena della grafica italiana (Milano 2015), Il linguaggio dell’innovazione (Cosenza 2015).