Personale di Giovanni Cafarelli
Novembre – Dicembre 2018
Castello Fittipaldi-Antinori, Brindisi di Montagna
Unitario, seppure attraversato da un entrelacement di fili narrativi, è il percorso artistico di Giovanni Cafarelli, percorso che si origina idealmente proprio dai luoghi natii, in particolare dall’affabile asprezza della montagna brindisina e dal castello che oggi ha finalmente ritrovato la sua antica fisionomia. Hanno questi luoghi per lui, infatti, quasi una valenza zodiacale, come una enigmatica influenza capace di attrarre a sé e dare coerenza a quella molteplicità espressiva che in quasi un cinquantennio l’artista ha evidenziato nella sua vasta produzione, spaziando dalla grafica a svariate tecniche pittoriche, con qualche incursione nel campo della scultura e dell’arte performativa.
Non per caso, quindi, nel 1969 fu proprio la rocca del castello, con quel rudere che sembrava dover caracollare verso l’oblio, ad essere teatro di un happening che ripopolò di luci, di suoni e installazioni quel silenzio che è solito abbarbicarsi ai luoghi senza memorie. Per l’artista, allora appena ventenne, fu come spostare per qualche ora il baricentro dell’universo, facendolo cadere a piombo su quella montagna che all’improvviso fu più cielo che terra, più Europa che Lucania, più speranza che sfinito abbandono.
Profetica appare, dunque, quella performance oggi che su questa montagna l’alea di quel silenzio è stata sconfitta e queste pietre, non più ruderi, ma severe ed eleganti sale di antico maniero, ritornano in dialogo con quella gioventù di passione che Giovanni Cafarelli non ha mai perduto. Così il tempo con il suo andare, che solo in apparenza è unidirezionale ma in realtà altro non è che un estenuante e perpetuo andirivieni, riesce a ritornare su se stesso, a chiudere un cerchio, a tracciarne uno nuovo, aprendosi davanti a noi come un giornale che forse non finiremo mai di leggere. Ecco perché nell’arte non esiste la cronaca, ma solo la Parola intesa nel senso più sacrale. Nell’eterno del tempo è l’eterno dell’arte e viceversa, cosicché non esiste accidente nell’uno come idioma nell’altra che non faccia parte della sola medesima armonia.
Giovanni Cafarelli sulla linea del tempo e dell’arte ha tracciato suoi molteplici segni, ha parlato più lingue, ha percorso diversi sentieri, ha raccontato chimeriche storie, eppure ha ritratto soltanto i suoi luoghi, sviscerandone il buio, trafugandone la luce, cavandone la terra fino a scoprirne le ossa, arrovellandosi nella fuga di squarci possenti, nella memoria di formidabili inezie germogliate di oro nel suo sconfinato campo dei miracoli. Ci sono cieli che non sono cieli nelle tele di Cafarelli, e linee di orizzonti capovolti, e microcosmi ingigantiti; ci sono ombre di bosco vaganti, perdute dai rami nella lunga litania del vento, c’è il fuoco delle fiaccole tra le parole biascicate per incontrare le anime lungo il pendio del borgo, c’è il dondolio distratto dei santi sulle spalle nelle estati morenti e il marcio profumo del muschio nella inesauribile nostomania decembrina.
È paesaggio questo; ma nonostante la forza del colore e la greve matericità che spesso invade la tela, non è urlo che coglie, ma eco che ritorna, immagine che affiora indistinta, a volte onirica nella surreale stilizzazione, altre ossessiva nella esasperazione di un solo particolare che si ingigantisce a dismisura, come un grumo di terra che diventa pianeta nelle tormentate campiture dei grandi tondi, o la notte dei vicoli che ghermisce brandelli di muri scalfiti. Uno psicopaesaggio insomma. Dissonante a un tempo armonico.
Anna R. G. Rivelli