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I Manifesti del Novecento sono degli affascinanti strumenti filosofici attraverso i quali molti artisti, operando in gruppo o meno, hanno espresso quella che all’epoca era la loro visione del mondo e dell’arte.
Dal Futurismo a Fluxus, dal Cavaliere Azzurro all’Arte Concettuale, la videoinstallazione di Julian Rosefeldt al Palazzo delle Esposizioni fino al 22 Aprile 2019, è un esplicito omaggio alle dichiarazioni di intenti più appassionate del secolo scorso, frutto di una necessità che, prima di essere collettiva e rivoluzionaria, è espressione di un bisogno intrinseco per ogni essere umano di stabilire qual è la propria posizione nel mondo.
Il lavoro dell’austriaco Rosefeldt, berlinese di adozione e architetto di formazione, si basa su una attenta analisi dei testi di numerosi Manifesti del Novecento che l’artista ha sapientemente scomposto e ricostruito in modo tale da essere oggetto di confronto tra diversi artisti e autori, anche appartenenti a periodi diversi, e resi “dicibili” nel contesto visivo. Si tratta di 13 schermi, ciascuno dei quali riproduce un video il cui soggetto si ricollega a un movimento o a una tematica, e il cui contenuto testuale è un collage che va a costituire, secondo le affermazioni dell’artista, una sorta di metamanifesto.
Ogni video/manifesto è riadattato a situazioni della nostra contemporaneità, recitate dalla, mai come in questo caso, camaleontica Cate Blanchett. All’attrice australiana è stato affidato l’importante compito di rendere i testi più accessibili attraverso l’interpretazione di diversi personaggi, di cui uno addirittura maschile. Per l’esattezza sono un senzatetto, una broker, l’operaia di un impianto di incenerimento dei rifiuti, una CEO, una punk, una scienziata, l’oratrice ad un funerale, una burattinaia, la madre di una famiglia conservatrice, una coreografa, una giornalista televisiva e un’insegnante. Il tredicesimo video è l’introduzione al ciclo, rappresentata dall’ingrandimento di una miccia che si consuma lentamente fino ad esaurirsi, mentre le parole di Tristan Tzara chiedono: Come si può far ordine nel caos di questa informe entità infinitamente variabile: l’uomo?
Ad ogni Movimento o Tematica (Architettura, Cinema, Performance) è associato un personaggio e il contesto in cui agisce ma, al contrario di quello che ci si aspetterebbe, visivamente non ci sono riferimenti alle caratteristiche storico-artistiche del movimento collegato.
Le affinità tra immagini e testo appartengono ad un altro ambito, quello scelto da Rosefeldt, in cui risuonano le parole dei diversi autori.
Per esempio nel Dadaismo, l’oratrice di un funerale recita dal pulpito le parole di Tzara, Picabia, Dessaignes, Éluard ed altri. Il Dadaismo celebra la morte (dell’arte, della logica, delle categorie) e il termine “morte” è l’unica parola che non sia effimera, in una orazione in cui dal pulpito si afferma che consideriamo nobili pensieri e astrazioni inesistenti, tutte fandonie costruite come dogmi […] ma avete paura di non credere più. Non sapete che, anche senza dipendere dal nulla, si può essere felici.
Questo collage testuale delle posizioni intellettuali degli scrittori è funzionale nel suggerire una nuova posizione intellettuale, quella di chi osserva.
Nello stesso ambiente, l’atrio centrale del Palazzo per l’occasione ridisegnato dall’artista, ogni video trova la sua collocazione visiva e sonora pur essendo all’interno di un percorso complessivo e non obbligato. È possibile, grazie all’allestimento accuratamente studiato, scegliere di seguire uno schermo, e concentrarsi sulla narrazione, oppure ampliare la percezione sensoriale a più concetti e immagini e lasciarsi coinvolgere dalla bellezza della molteplicità.
Parafrasando le parole di Italo Calvino in una delle lezioni per il nuovo millennio, è come se lo spettatore si trovasse all’interno di un sistema di sistemi. Ogni video/manifesto rappresenta un sistema ed è pensato e disegnato seguendo una narrazione che risponde ad una logica lineare, sia visiva che testuale, che però non può prescindere da ciò che lo circonda.
Quest’ultimo aspetto è evidenziato da un momento corale in cui tutte le protagoniste di ciascun video, primo piano e occhi allo spettatore, recitano un estratto focale del metamanifesto con lo stesso tono monocorde, come se simulassero una litania. L’attenzione è inevitabilmente catturata sul molteplice poiché, appunto, ogni singolo sistema è condizionato dagli altri e lo condiziona.
Rosefeldt costringe lo spettatore a concentrarsi, a incuriosirsi per un video piuttosto che per un altro, a spendere del tempo per capire perché, per esempio, una madre tradizionale reciti ‘Sono per un’arte…’ di Claes Oldenburg mentre prepara la tavola per poi cenare con la sua famiglia, o perché dovremmo accettare consigli da una ragazza tatuata che ci dice con irriverenza che la logica è un errore e il diritto alla completezza è uno scherzo di cattivo gusto.
La scelta di Cate Blanchett nell’interpretazione di diversi ruoli, insieme alla predilezione per l’utilizzo del linguaggio cinematografico, alleggeriscono la complessità del lavoro svolto sui testi, e non ci nascondono la passione di Rosefeldt per il cinema d’autore.
In un certo senso si può parlare di omaggio ad alcuni grandi registi del secolo scorso (o che si sono affermati nel Novecento), sia per la scelta delle inquadrature sia nel modo di intendere la cinematografia.
Nel video/manifesto dedicato alla spiritualità nell’arte, che ha per protagonista l’amministratrice delegata di una società non ben definita, ritroviamo la cura e la lentezza delle inquadrature dei paesaggi tipici dello stile di Michelangelo Antonioni; così come la la citazione della scena girata attraverso il riflesso di un vetro, appena percettibile in alcuni passaggi che progressivamente vanno a svelare il trucco.
Non si può fare a meno di pensare a Wim Wenders e alle sue inquadrature dall’alto di Berlino nel video dedicato al Situazionismo, con le riprese continue che girano circolarmente fino a comporre l’intera scena, passando in successione gli elementi topici della narrazione visiva fino ad arrivare alla protagonista. Sempre in riferimento allo stesso regista, la punk protagonista del video/manifesto su Stridentismo/Creazionismo sembra trovarsi nel backstage del concerto berlinese di Nick Cave durante le riprese di Così lontano, Così vicino.
Ma il regista a cui Rosefeldt sembra tenere particolarmente è Jean-Luc Godard, e di conseguenza sembra riporre peculiare attenzione in chi dopo di lui ha seguito quel tipo di percorso nell’ispirazione. Ritroviamo un’impostazione tipica di Godard nel modo di concepire il tempo della narrazione che, nella maggior parte dei casi, si allontana dai clichés cinematografici per avvicinarsi invece allo scorrere verosimile di quello della realtà nella sua rappresentazione più sincera, il ritmo del racconto che diventa un tutt’uno con quello della vita di tutti i giorni, soprattutto nella completa assenza di simbolismi a favore della verità di ciò che si vede. Questo ultimo aspetto trova particolare risalto nella scelta di utilizzare i primi piani dell’attrice che parla guardando verso lo spettatore.
Rosefeldt ci racconta indirettamente la sua personale dichiarazione di intenti nel metamanifesto che conclude il ciclo, quello dedicato al Cinema e raccontato da un’insegnante a un gruppo di bambini. “Niente è originale” è scritto sulla lavagna della classe, ed è la frase/monito per il futuro delle giovani generazioni. Servendosi delle parole di Jim Jarmush, Lars Von Trier, Stan Brakhage e Werner Herzog l’artista ci dice che le riprese vanno effettuate in luoghi reali, (i video sono tutti girati nella periferia di Berlino nei contesti di appartenenza dei personaggi, e in 12 giorni); l’obiettivo supremo è spremere la verità dai personaggi e dalle ambientazioni (per esempio il Manifesto sull’Arte concettuale e Minimalismo in cui la reporter in diretta con lo studio dall’esterno rivela la finzione dell’acqua in un finto temporale); scegliere di rubare solo le cose che parlano direttamente della propria anima, e comunque ricordare sempre l’insegnamento dei grandi maestri, come per esempio proprio quello di J.L.Godard che disse: “Non importa da dove prendi quello che prendi – ma dove lo porti.”
La scelta di portare i Manifesti del Novecento e rieditarli nella contemporaneità, risponde a mio avviso alla necessità di colmare una carenza evidente al giorno d’oggi. Carenza che ha a che fare con l’assenza di una filosofia attuale che aiuti a trovare un senso definito nella vita, nella politica, nel lavoro e probabilmente anche nell’arte.
Non è quindi casuale che il percorso inizi con l’immagine di una miccia che lentamente si consuma.
La miccia del video iniziale, seppur concepita, nella progettualità dell’allestimento come liason tra le immagini del video introduttivo e quelle del secondo video/manifesto sul Situazionismo (in cui il Senzatetto si ritrova insieme ad altri clochard a far esplodere dei fuochi d’artificio) è metaforicamente “innescata” per far esplodere le suggestioni e le riflessioni derivanti dall’osservazione di tutti i video in mostra.
Dodici spunti visivi e uditivi su cui riflettere e che trovano un’adeguata conclusione nelle parole di Cate Blanchett nei panni di un’Insegnante che, passeggiando tra i banchi di scuola, svela una fondamentale verità sulla creazione dell’arte: Ruba da qualsiasi cosa che risponde all’ispirazione o alimenta la tua immaginazione. Divora i vecchi film, i nuovi film, la musica, i libri, i quadri, le fotografie, le poesie, i sogni, le conversazioni casuali, l’architettura, i ponti, i segnali stradali, gli alberi, le nuvole, i bacini d’acqua, luci, ombre.
L’autenticità è preziosa, l’originalità inesistente.
Luna Gubinelli