di Anna R.G. Rivelli
“L’ora della riflessione suona sempre dopo quella dei fatti. E se di certi avvenimenti reali gli studiosi non sono a conoscenza, li ignorano volutamente o inconsciamente li rifuggono, a me è parso opportuno non abbandonare nel dimenticatoio del sapere i fenomeni concreti di cui sono stato testimone”. Con queste parole Ghino Mori chiarisce immediatamente in premessa oggetto e scopo del lungo e minuzioso lavoro che prende corpo nelle oltre trecento pagine del volume “L’infinito, a volte”, libro sconvolgente e prezioso che, mentre chiude a qualsiasi classificazione di genere letterario, apre ad una visione del mondo e della vita certamente difficile da metabolizzare per chi preferisce vivere nella stasi rassicurante delle proprie strutture razionali, ma contemporaneamente capace di testimoniare un orizzonte oltre l’orizzonte a quanti non “ignorano volutamente” bensì hanno accesso a quell’apice di conoscenza che da sempre è e resterà il sapere di non sapere. Mori, psicologo e psicoterapeuta di origine lucana, raccoglie in questo libro quei “fenomeni concreti” con i quali inaspettatamente – ma forse non casualmente, come egli stesso ci dirà – si trovò a convivere in un periodo della sua vita quando, studente di medicina a Milano, appariva probabilmente più proiettato verso l’abbaglio del matematicamente certo che non verso le nebbie un po’ inquietanti di ciò che comunemente si usa definire paranormale. Mori insomma è un testimone; un testimone, peraltro involontario, che in queste pagine registra minuziosamente, a volte quasi con distacco, i fatti a cui ha presenziato e di cui è stato partecipe per offrirli alla propria ed altrui riflessione, senza pretesa di convincere nessuno, ma anche senza alcuna intenzione di lasciare spazio al benché minimo dubbio sulla veridicità di quanto racconta. “Il gruppo degli amici di là”, infatti, è percepito dall’autore come reale e concreto, non diverso e non meno importante di quegli affetti terreni che con esso condividono l’intensa dedica del libro.
“L’infinito, a volte” è dunque il racconto di un’esperienza straordinaria durata circa un decennio (siamo tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Novanta) che l’autore ha condiviso con una collega universitaria inizialmente inconsapevole delle proprie doti medianiche, con un insieme eterogeneo di persone aggregatesi per quell’imprevedibile casualità che sempre più nel corso della narrazione apparirà invece come una studiata e sapiente “regia”, e con quelle Entità che si presentavano all’improvviso a propria discrezione per dialogare con loro, vincendo progressivamente, con la forza della propria evidenza, resistenze, scetticismo e miscredenza. Visioni, telescrittura, trance, viaggi astrali, metempsicosi, percezioni extrasensoriali, psicometria: sono questi i fenomeni di cui si parla; argomenti certo non facili da trattare perché nascondono sempre l’insidia di un’ingannevole appariscenza e il rischio di un’accoglienza fredda (se non anche di un giudizio calunnioso) nei confronti di chi ne parla. Ghino Mori, però, non indulge agli eccessi, evita i toni entusiastici e le esasperazioni trionfalistiche, e piuttosto riflette insieme al lettore non soltanto sulla straordinarietà dei fenomeni di cui è testimone, ma anche, se non soprattutto, sulle prospettive e sui temi a cui essi conducono. E sono forse proprio queste prospettive e questi temi che danno al racconto fascino e forza, per quelle verità che sembrerebbero essere state scritte nel Dna stesso dell’umanità ed essersi perse nel corso dei secoli anche grazie alla “sicumera dogmatica” dei movimenti religiosi di tutti i tempi, spesso sostenuta da quell’istinto di sopraffazione che solo sopravvive negli “spiriti piccoli”. La bimba Amelia, Gabriele, Nesia –le Entità che comunicano attraverso la giovane medium – parlano in realtà di un’assenza di confine tra due dimensioni, quella terrena e quella ultraterrena, e di una relazione pressoché ininterrotta tra spiriti e “spiriti incarnati”; e parlano dei singoli come parte di un Tutto, di una complementarità proficua e necessaria, dell’importanza del rispetto della diversità, dell’inesistenza del tempo; indicano l’energia che noi siamo, quel nostro “quid” più profondo che sottrae la vita al puro caso, il percorso di una evoluzione spirituale che non approda al castigo eterno, ma ad un’occasione nuova di crescita. E ancora, parlano dell’Amore – quello concreto che non può esistere nell’immaturità della coscienza, quello che non crea dipendenza e non pretende il possesso- , dell’anima che è anche degli animali (anch’essi come noi parte di quel medesimo Tutto), della volontà da cui la crescita spirituale non può prescindere, della Fede che è tutt’altro che un cieco credere. E su questi temi e sulle parole di questi “amici di là”, avvalorate dai riscontri concreti di cui di volta in volta il lettore viene messo puntualmente al corrente, Ghino Mori medita e fa meditare argomentando in modo serrato, sottoponendo alla nostra attenzione la Parola Sacra, il verbo della Scienza, il flusso della quotidianità. Ma dal lettore non pretende nulla. “La fede non è ciò che voi credete – aveva detto Gabriele – Non è il cieco credere, né il falso convicimento. Tanto meno l’abbandono. Tanto meno la concessione. Tanto meno lo sforzo. O l’evadere. La fede è quel punto chiaro che in ognuno di noi esiste. È il seme, il seme dello spirito, lo spirito che illumina, custodisce”.
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