Articolo di Antonio Cacciatore estratto dalla rivista Sineresi n. 3
Intorno all’anno mille si verifica una migrazione verso il Meridione d’Italia di ordini monastici dell’Oriente, in fuga dalla loro terra a causa delle lotte iconoclaste,
Fra gli insediamenti rupestri in Lucania, quelli nell’area del Vulture, dove un rilievo particolare riveste a Melfi la cripta di Santa Margherita di Antiochia, interamente affrescata, situata nei pressi del camposanto, a circa tre chilometri dal centro della città sulla statale che porta a Rapolla.
È questa, fra le chiese rupestri, l’esempio più significativo e per l’impianto (scavata nel tufo a due campate con volte a crociera e ampio cenobio) e per la decorazione pittorica. Ritenuta dagli studiosi “una delle più importanti, tra le poche a stile bizantino del 200, dell’Italia Meridionale”.
La cripta ha una sua magicità. Siamo in pieno Medioevo e contrariamente all’invalsa concezione di un periodo tetro e buio, il luogo è un autentico trionfo del colore, una simbiosi di misticità e arte, nella rappresentazione di una moltitudine di immagini sacre. I preziosi dipinti richiamano schemi figurativi del periodo, legati stilisticamente a caratteri propri di una cultura meridionale, ma risentono di esperienze bizantine e modelli influenzati dalla cultura catalana.
Ma a colpire il visitatore, che entra nella chiesa rupestre, in alto a sinistra un inusitato affresco, denominato “il monito dei morti”, che nel 1973 Jurgis Baltrušaitis ne “Il Medioevo fantastico” scrive essere la prima raffigurazione del genere in Europa e premessa al ciclo delle “danze macabre”. Ma sarà proprio questa raffigurazione a riservarci un’altra sorpresa. Nel 1994, in coincidenza con gli ottocento anni della nascita di Federico II, lo studioso Lello Capaldo, giornalista e naturalista, scopre l’immagine dell’Imperatore e la sua famiglia in abiti da falconiere. La tesi è sostenuta da un’ampia ricerca che ne avvalora l’autenticità.
L’affresco, denominato altresì “Il contrasto tra i vivi e i morti” e “Il trionfo della morte”, mostra due scheletri dall’aspetto terrificante e ripugnante, con teschi orripilanti e il ventre brulicante di vermi che si ergono contrapponendosi a tre vivi. Il primo ha veste scarlatta ornata di ermellino, guantone e falco. Alla cintura una daga orientale ingemmata. Il suo volto ha barba rada e rossiccia. È in atteggiamento ieratico e cerca con lo sguardo e con la mano sinistra di allontanare gli scheletri dai suoi cari: una donna dai tipici tratti fisiognomici del nord, abbastanza alta, dai capelli biondi e gli occhi cerulei; ella, come si legge in “S. Margherita, cappella vulturina del duecento” di G.B. Guarini del 1899, pone con aria di protezione materna, le mani sottili sulla spalle di un figura infantile, dai larghi occhi attoniti, dai capelli biondi finemente ondulati.
Tutti hanno al loro fianco borsa da falconiere con ricamato il giglio e il fior di loto a otto petali, oggi nel primo personaggio poco leggibili. Una simbologia, per quanto riguarda il numero otto, alla quale Federico II era molto legato. Basti pensare all’esoterico Castel del Monte e all’anello-sigillo, rinvenuto nella sepoltura di Palermo, con impresso proprio il fior di loto. D’altronde l’otto è numero inferiore al nove che è la divinità, e in posizione orizzontale è l’infinito, qual era il potere dell’Imperatore.
Mentre per il giglio araldico, che ha forviato precedenti ricerche, sino a vedere nei vivi tre mercanti fiorentini, immancabile è la sua presenza nelle raffigurazioni della famiglia sveva: da Federico Barbarossa a Arrigo VI e lo stesso Imperatore. Finanche le corone e la coda dell’aquila imperiale sono gigliate.
Infine, davvero sorprendente, il raffronto fra l’immagine della cripta di Melfi e quella tratta dalla Chronica Regia Coloniensis, documento coevo del periodo federiciano, conservato nella Biblioteca Reale di Bruxelles. Questi gli elementi principali che portano a identificare nell’affresco l’immagine di Federico II, Isabella d’Inghilterra terza moglie dell’Imperatore e Corrado, figlio di Jolanda di Brienne, seconda consorte, morta al parto.
Alla sensazionale scoperta, che suscita largo interesse culturale e mediatico nazionale ed estero, fa seguito restauro della Soprintendenza per i Beni Storici e Artistici della Basilicata, unitamente al progetto della Fondazione Zetema di Matera che la inserisce nel Distretto Culturale dell’Habitat Rupestre regionale e l’impulso promozionale dell’APT Basilicata, proprio con l’intento di allargare l’orizzonte della fruizione in ambito nazionale e internazionale della cripta.
Ignorata dai vari Schultz, Lenormant e Bertaux nei loro viaggi del Grand Tour, fu scoperta e studiata nel 1899 da Giambattista Guarini di Melfi, unitamente al concittadino Luigi Urbino, pittore, che degli affreschi produce disegni che, con ampia relazione dello stesso Guarini, saranno pubblicati sulla rivista di Benedetto Croce, “Napoli nobilissima”. Ma dopo un iniziale interesse la cripta riprenderà ad essere una grotta per il rifugio degli armenti. Solo negli anni ’70, dopo una campagna di stampa, sarà avviato programma per la conservazione del monumento.
Nella chiesa rupestre colpisce quella moltitudine di rappresentazioni sacre che mostrano con evidenza l’essere state eseguite da più mani, in vari periodi e influssi. Così S. Nicola, S. Guglielmo da Vercelli, che istituì il suo ordine a Melfi, il martirio di S. Lorenzo, S. Lucia e S. Caterina con ricchi abiti bizantini, il martirio di S. Andrea e di S. Stefano, frammenti di una Natività di rara bellezza, la duplice rappresentazione di S. Michele, che evidenzia un culto micaelico diffuso verso l’Arcangelo (nella simbologia cristiana,il Figlio), S. Giovanni Battista e S. Giovanni evangelista, Cristo e Madonna in trono.
Su tutte campeggia sull’altare maggiore, nella cui volta è rappresentato il Cristo Pantocratore di alta scuola bizantina, l’immagine di Santa Margherita di Antiochia (in origine Marina, poi Margarita ad evidenziare il suo candore) contornata dalle “storielle” della vita e del martirio, e fra le raffigurazioni di S. Paolo e S. Pietro.
L’abbigliamento della santa, chiaramente regale, è proprio della pittura rupestre meridionale con motivi di gusto nordico. Le figure delle “storielle”, sia pur nella loro semplicità dei tratti, si ispirano a un’arte miniaturistica, permeata dall’inconfondibile stile bizantino.
Esse, come in una sequenza filmistica, ci narrano la storia della santa. A sinistra, l’incontro con il prefetto Ollario che tenta di sedurla mentre Margherita pasce le sue pecore; la santa, accusata dal padre Edesio, sacerdote pagano, è interrogata dal prefetto; imprigionata e tentata dal demonio nelle vesti di un drago, ucciso da Margherita con la croce; nell’ultima, sempre in prigione, con la visione di un diavolo. A destra il martirio: è flagellata, scorticata con un pettine di ferro, calata nell’olio bollente, decapitata mentre la sua anima vola in cielo. Rappresentazione questa insolita per benedire con la mano destra, mentre con la sinistra regge una croce.
Ma al visitatore, nell’uscire dalla cripta, un’ultima sorpresa, quasi ad avvalorare la scoperta dell’immagine dello Stupor Mundi. Alle sue spalle l’affresco del “monito”, di fronte si staglia imponente la sagoma del castello delle Costituzioni di Federico II. Non sarà questo il messaggio dell’ignoto eremita, autore della raffigurazione? La grandezza dell’Imperatore si annienta di fronte alla morte.