Arcangelo Moles “Bandiere senza frontiere. Parusia 1”
“Un lavoro artistico di successo – scrive il filosofo tedesco Theodor W. Adorno – non è quello che risolve le contraddizioni in una armonia spuria, ma quello che esprime l’idea di armonia negativamente con l’incorporare le contraddizioni, pure e prive di compromessi, nella sua struttura interna”. Possiamo dire quindi che un lavoro artistico di successo è, in sostanza, non espressione di pace, bensì costruttore di pace. Se è vero infatti, come Adorno dice, che l’arte è capace di creare una sorta di armonia delle contraddizioni pure, è evidente che nell’arte l’inconciliabile diventa conciliabile non già nel compromesso e/o nell’indebolimento o nella perdita dell’identità, bensì nella collocazione egualitariamente autorevole all’interno di un mondo. Compito dell’arte dunque – ed è lo stesso Adorno che lo dice- è quello di portare il caos nella nostra società, di porsi cioè come altro dal mondo ed elemento di disturbo laddove il mondo si presentasse cristallizzato e chiuso in una sua non dialogante razionalità, laddove – così come oggi accade – esprimesse una volontà di identità assoluta con se stessa e un sentimento di ostilità per tutto ciò che è diverso.
L’arte, d’altronde, è un linguaggio e come tutti i linguaggi serve a comunicare, a mettere in comune cioè, a creare quella relazione che è il più solido fondamento della pace. L’arte perciò sa distruggere lo stereotipo, destrutturare la consuetudine, portare alla luce l’invisibile, farsi, nella propria assoluta autonomia, strumento proiettivo della realtà che sarà. L’artista, infatti, legge del presente tangibile le energie che lo sottendono piuttosto che le linee già rivelate, e giunge quindi alla “visione” più che al visto. E la pace da sempre ha bisogno di visioni e di visionari; ha bisogno di chi sappia andare oltre il senso letterale delle cose, oltre la gabbia della pedanteria e oltre la pedanteria del particolare. E ha bisogno di bellezza la pace. Sul confine tra la bellezza e il brutto si gioca infatti il destino del mondo. Del brutto estetico si nutre il brutto etico, la saturazione del grigio non può che restare grigio laddove non si portano i colori. La bruttezza non è solo disarmonia, è un fato malvagio; le brutte periferie allevano le teppe, le brutte aule il disamore allo studio, non si può sfuggire. Il brutto è fagocitatore, assimila a sé tutto e nel piattume che genera finisce per stigmatizzare la differenza come difetto, vizio, elemento nemico. Dalla bruttezza percepita come destino ineluttabile, insomma, scaturisce quel sentimento di ostilità e quel desiderio di sopraffazione che sono i germi delle guerre piccole e grandi. Uguale e contrario è il modus operandi della bellezza; il bello genera bello, è attrattore e propulsore insieme, comprende, amalgama ma non annulla le sfumature. Nella bellezza nasce la positività del pensiero e la capacità di immaginare percorsi sempre migliori. L’arte è dunque custode e interprete di questa bellezza che è ben lungi dall’essere quello statico e insulso cliché che l’industrializzazione del pensiero ha partorito nell’epoca contemporanea; l’arte ci insegna che la bellezza non è una e, soprattutto, non è un prototipo a cui adeguarsi, ma una filosofia da cui farsi guidare per scoprire la molteplicità e la varietà insite nell’universo come essenze con cui confrontarsi e non come sostanze con cui entrare in competizione. E questa è la Pace.
Anna R. G. Rivelli